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Ucraina, l’Iran approfitta della crisi per consolidarsi

Mohammad Reza Nemazadeh, ministro dell’Industria iraniano, l’aveva detto chiaramente pochi giorni fa al tedesco Handelsblatt: «L’Iran può diventare un partner più affidabile, sicuro e duraturo per l’Europa». Può, salvo sblocco delle sanzioni – che potrebbe anche progressivamente arrivare, in contropartita agli accordi sul nucleare.

Si è trattato di dichiarazioni, sia chiaro, ma rivelano un intento ben leggibile: anche perché Nemazadeh non ha dimenticato i cari russi, almeno nei pensieri: «Non vogliamo fare concorrenza alla Russia, ma il fabbisogno energetico europeo aumenta, e noi vogliamo partecipare. Abbiamo riserve energetiche e piani di collaborazione. Per quel che riguarda Mosca, la decisione del resto spetta all’Europa». Come dire, spiacenti amici russi, c’est la vie.

Se – e sottolineato se – dovessero arrivare sanzioni di sistema (contro il commercio energetico per esempio) dirette dall’Occidente a Mosca come pegno per l’escalation nella crisi ucraina, Teheran potrebbe trovarsi davanti numerosi potenziali clienti. Le risorse non mancano, sebbene gli embarghi dopo la crisi degli ostaggi americani nel 1979, hanno fatto sì che le infrastrutture s’arrugginissero un po’. Ma di gas ce n’è tanto: il South Pars (condiviso con il Qatar nel North Dome) è un giacimento enorme, che si trova in pieno Golfo Persico – secondo l’International Energy Agency, sotto tremila metri di fondale e 65 di acqua, sono contenuti 34mila miliardi di metri cubi di gas naturale iraniano. E poi c’è il petrolio, con i ricchi giacimenti di Azadegan, Marun e Yadavaran (in Khuzestan, in cima al Golfo Persico, al confine con l’Iraq) – nel mese di marzo, le vendite di petrolio iraniano, hanno avuto un picco del +36% solo con la Cina.

Il Golfo, appunto, il luogo dove Teheran mira da anni a far valere la propria influenza – come la Russia, d’altronde. Solo che in questo momento, gli alleati di Mosca si sono ridotti essenzialmente ad uno: quell’Assad immerso nelle rovine delle guerra civile. Diversamente per l’Iran.

Nell’area lo sciismo iraniano sta diventando ragione ideologica (potente e mistica) di un’espansione regionale nei territori non prettamente sunniti – e anche dove le minoranze sunnite diventano rilevanti, dall’Iraq all’Azerbaigian, dal Bahrain al Libano, dallo Yemen al Kuwait, per capirci. Faceva notare Giancarlo Elia Valori in un suo fondo per il Giornale dell’Umbria, che «perfino in Albania, dove è presente una vivace comunità sciita, in diretta comunicazione con Teheran» si inizia a sentire fortemente quest’influenza.

«Un progetto esoterico che è anche politico», continua Valori: come una sorta d’“internazionale sciita” con al centro Teheran, dove l’interesse contro l’entità sionistica israeliana si fa per certi versi relativo – come mezzo e simbolo per l’eliminazione dell’egemonia occidentale nell’area, per arrivare poi allo «scontro definitivo con i wahabiti sunniti al potere in Arabia Saudita, al centro del sistema Opec della relazioni tra Stati Uniti e Medio Oriente».

L’Iran sa bene che questo non è il momento migliore per entrare in diretta concorrenza con la Russia. C’è la fatica della crisi ucraina, e il rischio è di perdere il più importante alleato strategico internazionale, che sarà fondamentale ai tavoli di trattativa del 5+1 – e pure a quelli sulla Siria, dove Teheran ha interesse nel partecipare e cerca una spalla di riferimento che non lo isoli nell’appoggio ad Assad.

Appoggio che per altro sta diventando più consistente in questi ultimi mesi – quasi come se il nulla di fatto delle trattative fin qui instaurate, che hanno finito per mettere spalle al muro il mediatore Onu Brahimi, potesse essere l’indicazione, il via libera per dire, ad un inasprimento delle repressioni governative alla rivolta. L’Iran sta inviando uomini dei reparti speciali (comandanti del Quds Force, il corpo d’élite dei Guardiani) con il compito di fare formazione ai militari – e ai miliziani, le shabiha, uomini che Assad ha tirato fuori dalle galere siriane e mandato a combattere al fronte, verrebbe da dire “avanzi di galera” senza un minimo di cognizione militare. Non solo: ci sono i volontari combattenti Basij, quelli sì impegnati sul campo, anche ad organizzare le strutture delle milizie – forti della propria esperienza fin dai tempi di Khomeini. Ma c’è anche la tecnologia: stanno arrivando infatti dai porti di Tartus (con la supervisione russa, che lì ha una base) lanciarazzi Falaq, e nei cieli di Goutha (il quartiere del Rif di Damasco colpito dagli attacchi chimici dell’agosto scorso) è stato avvistato un drone Shahed 129 modificato – sul muso, con una gobbatura simile a quella di un americano Predator o Reaper e una grossa antenna finora mai vista -, come se l’Iran prendesse la guerra sporca siriana come una scenario di test operativo dei propri giocattoli bellici.

Non c’è però, solo l’appoggio militare: alla notizia lanciata dal Programma alimentare mondiale, sulla possibile siccità che andrà a colpire le aree di nord ovest della Siria – quelle già martoriate dalla guerra di Aleppo, Idlib, Hama – l’Iran ha risposto con un invio extra di oltre 30 mila tonnellate di aiuti alimentari per far fronte alla possibile carenza di grano.

Chiaro messaggio – la Siria come proxy – per far capire l’intenzione di configurarsi come potenza affidabile nell’area, riferimento anche sopra agli organismi internazionali – soprattutto agli occhi degli interessati paesi sciiti – che erano finiti in mezzo alla polemica dei gruppi di attivisti e dello stesso Wfp, per aver ritardato l’invio degli aiuti.

C’è un Iran diverso che sta uscendo dalla presidenza Rouhani? Forse, ma nemmeno troppo. Di certo un Iran disinteressato, anzi attento al resto del mondo: non si tratta più dei proclama ”avete bisogno del nostro gas, vi lasceremo al freddo” che Teheran era solita lanciare una paio di anni fa, nel momento più critico della crisi nucleare e delle sanzioni. C’è una volontà di riprendersi un posto tra la comunità internazionale, e di far valere il proprio ruolo, anche in nome della grande cultura che la storia persiana emana e anche in nome della forza tecnologica che sta spingendo le nuove generazioni – proprio ieri, l’Iran ha vinto (in casa) la Robocup, campionato di calcio tra automi battendo tedeschi e olandesi.

Non senza passaggi controversi. Era la metà di gennaio, quando il presidente moderato e liberale che ci stiamo raccontando nella nostra narrativa, festeggiava il raggiungimento degli accordi di Ginevra sul nucleare, con un tweet in cui si parlava di «potenze mondiali [che] si sono arrese al volere del popolo iraniano» e dichiarava di non aver nessuna intenzione di distruggere le centrifughe – anche se, secondo un rapporto Aiea uscito in queste ore, l’Iran sta rispettando la scadenza per un parziale congelamento del suo programma nucleare; ma il punto è proprio quel parziale che ha tutto un valore rispetto alle angolature da cui lo si guarda.

È il gioco di equilibrio che si trova davanti Rouhani: argomentare con i “duri e puri” che inneggiano i vecchi slogan della Rivoluzione – «morte all’America» – nel contestare la sepoltura del grande studioso americano Richard Nelson Frye, che aveva vissuto una vita in Iran e aveva richiesto di essere sepolto ad Isfahan, perla dell’impero persiano. E allo stesso tempo cercare di trasmettere all’esterno questa immagine di cambiamento: compito in cui forse Rouhani sta riuscendo.

Alla comunità internazionale, in fondo legata al pragmatismo trasmesso da Obama, poco importa se il numero delle esecuzioni è sostanzialmente aumentato – secondo l’Inviato dell’ONU sulla situazione dei diritti umani in Iran, Ahmed Shaheed, almeno 176 persone sono state giustiziate tra gennaio, febbraio e marzo di quest’anno – insieme alla persecuzioni delle minoranze. C’è un fatto che esprime questo atteggiamento d’apertura, quasi cieco, che sta contraddistinguendo l’Occidente: i primi di marzo una nave iraniana è sta intercettata dalla marina israeliana, viaggiava carica di armi (missili, bombe da mortaio, proiettili) dirette ai terroristi palestinesi a Gaza. In piena foga narrativa, e magari con l’obiettivo del trovare un accordo, nessun membro dell’Unione Europea ha condannato il fatto, e anche la Casa Bianca s’è espressa timidamente sull’accaduto – s’è lasciato passare un episodio di “terrorismo di Stato”, un segno di quell’asse del male in cui Bush aveva inserito l’Iran.

Teheran in fondo non è poi troppo diverso: solite pratiche, insomma, per consolidare le amicizie nel Golfo, camuffate dalle tiepide concessioni – come la liberazione di Sakineh, per esempio – che fanno star buono l’Occidente.

Serve posizionarsi, si diceva: e un po’ di maquillage sembra il mezzo migliore per dimostrare di potere essere davvero affidabile, di meritare la fiducia; prezzo da pagare per continuare nel proprio piano geopolitico.

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