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Renzi? Mi ricorda Fanfani. Parla Massimo Bordin

Attivismo, spregiudicatezza, abilità, tenacia. E una componente di cinismo che completa il profilo di “politico fiorentino” nell’accezione storica del termine. Le caratteristiche distintive di Matteo Renzi cominciano ad alimentare riflessioni e analisi negli studiosi.

Non mancano gli accostamenti con i protagonisti dell’esperienza repubblicana recente, da Bettino Craxi a Silvio Berlusconi. Uno dei paralleli più originali porta la firma di Massimo Bordin, giornalista e voce di Radio Radicale soprattutto per la rassegna informativa del mattino dal titolo “Stampa e Regime”.

È pensabile un parallelo tra Matteo Renzi e una figura della nostra storia repubblicana?

Ricordando che i paragoni storici presentano sempre dei limiti, mi viene in mente una suggestione sulle affinità tra il premier e Amintore Fanfani.

Perché questo accostamento?

Renzi si trova oggi in una situazione che si è verificata ben due volte nella vicenda della Democrazia cristiana, una delle forze progenitrici del PD. Mi riferisco al cumulo nella stessa persona del ruolo di segretario del partito e di Presidente del Consiglio. Accadde nel 1988 con Ciriaco De Mita e nel 1958 con Amintore Fanfani. Esperienze sfortunate per i loro protagonisti. Tutti e due persero le cariche in un breve arco di tempo e vissero una lunga fase di logoramento politico.

E sul terreno dei contenuti quali sono le affinità?

Renzi e Fanfani giungono al potere in un frangente di crisi profonda della realtà politico-istituzionale. L’economista di Arezzo conquistò la guida di una DC reduce dalla sconfitta elettorale del giugno 1953, quando il meccanismo di voto messo a punto dal suo leader Alcide De Gasperi per rafforzare l’alleanza riformatrice delle formazioni democratico-occidentali non scattò. Con il tramonto politico dello statista trentino e l’ascesa del professore toscano vi fu un primo “cambio di pelle” del partito di ispirazione cristiana.

La stessa metamorfosi che l’ex primo cittadino di Firenze vuole promuovere nel PD?

È un mutamento radicale impresso da una figura che non proviene dalla nomenclatura dei due gruppi fondatori del Partito democratico. Renzi è una sorta di “homo novus”. Anche Fanfani era riuscito ad accreditarsi come personalità innovatrice, pur appartenendo alla generazione che aveva contribuito alla rinascita della DC. Conquistandone la leadership nel 1954 e arrivando a Palazzo Chigi nel 1958. Al contrario di quanto accaduto con Renzi, si trattò di un’operazione giocata nell’orizzonte di anni e non dei mesi.

Tutti e due però tentano di radicare il partito nei gangli nevralgici dello Stato a partire dalle industrie pubbliche. O no?

È vero. Entrambi si muovono per modificare la struttura della propria forza politica rendendola più aderente alla realtà sociale. E lo fanno in modo speculare. Fanfani cercò di plasmare la Democrazia cristiana ai tempi che preparavano il boom economico. Renzi sta plasmando il PD alla stagione della crisi. Fanfani nutriva una prospettiva statalista. Renzi fa proclami di sburocratizzazione e liberalizzazione. Fanfani riorganizzò il partito nel mondo delle partecipazioni statali conferendogli un ruolo pervasivo nella macchina pubblica, lontano dal profilo notabilare della DC degasperiana. Nella tornata di nomine dei vertici delle aziende partecipate, Renzi ha agito con logica ferrea collocando un uomo di riferimento in ogni impresa strategica.

Renzi può essere ritenuto un “politico fiorentinonell’accezione attribuita a suo tempo all’ex presidente francese Francois Mitterrand?

Assolutamente no. L’impronta fiorentina presente nell’azione del premier si può ritrovare nell’influenza esercitata dal modello culturale dell’ex sindaco della città Giorgio La Pira. Ma non ha alcuna attinenza con la personalità di Mitterrand: politico immerso nella storia francese, con tutti i suoi passaggi traumatici dal regime di Vichy alla V Repubblica.

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