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Gli americani e l’Ucraina

Escono oggi due dati importanti per Obama. Innanzitutto, i sondaggi sulla popolarità, che tocca i minimi storici dall’inizio della sua amministrazione: soltanto il 41 per cento degli americani sta con il presidente. La quota oscilla verso il basso se si parla della riforma sanitaria (37) e subisce un lieve rialzo in materia economica generale (42), prima di crollare nel baratro del 34 per cento sulle questioni di politica estera.

Paga la crisi ucraina, letta da molti osservatori come conseguenza dell’eccessivo spazio sui tavoli internazionali lasciato al sognato alleato Putin – e sul rafforzamento conseguente del presidente russo. Paga, forse, l’indecisione in diversi altri campi, a partire da quello siriano per esempio, fino all’Iran, in cui la riapertura dei rapporti non sembra la via sponsorizzata da molti. Ma dietro c’è pure un ruolo sempre di minor peso in Medio Oriente – conseguenza dei due punti appena detti – e allo stesso tempo nel lontano Oriente, dove l’obiettivo del pivot asiatico sembra allontanarsi, con la Cina che sta rafforzando il suo ruolo di potenza unilaterale, anche grazie ai nuovi problematici rapporti tra mondo-Nato e Russia.

Contemporaneamente ne escono anche altri di dati, quelli di uno studio del Pew Center (riportato in un articolo di Europa), secondo cui sulla questione ucraina, gli Stati Uniti stanno vivendo una sorta di scontro generazionale. Dietro ad un dato generale che vede la maggioranza degli americani favorevole all’inasprimento delle sanzioni – ma contraria all’invio di armi al governo di Kiev – c’è un aspetto interessante. Perché davanti alla domanda definitiva sulla crisi, «Quanto sono importanti gli eventi in Russia e Ucraina per l’interesse americano?», soltanto il 20 per cento degli under-30 ritiene di rispondere «molto», a fronte di un 41 per cento degli over-50.

Facile sarebbe, però, affidare tutto alla questione generazionale: come dire che chi ha vissuto, chi è stato toccato nel vivo, gli anni della Guerra Fredda, conservi ancora scorie di quel periodo nella traduzione mentale delle vicende globali. C’è di più, sicuramente. Perché, come minimo, si cela dietro a questo genere di giudizio, lo scotto subito nelle discutibili (qualcuno direbbe controproducenti) campagne in Iraq e Afghanistan. E c’è anche sicuramente, una fiducia ancora sensibile (per quanto ingenua, magari), nella possibilità di un mondo monopolare, dove tutti collaborano e il male è relegato a singolarità puntuali – come dire, “è la globalizzazione, bellezza“, o giù di lì, a cui ci è piaciuto abituarci in questi ultimi anni. Inoltre, se si vuole, si può anche leggere – proprio abbinando il dato della popolarità di cui sopra – una sorta di sfiducia verso le azioni del presidente: come dire, meglio se ne stia fermo, che se si muove fa danni.

Quello che preoccupa però, in una  lettura dei dati proiettata verso un’analisi sociale, è il risultato di un altro sondaggio pubblicato tempo fa. Tra il 28-31 marzo, Kyle Dropp del Dartmouth College, Joshua D. Kertzer di Harvard University, e Thomas Zeitzoff di Princeton, hanno chiesto a 2.066 americani di collocare l’Ucraina su una mappa mondiale – e poi come Washington avrebbe dovuto rispondere alla crisi.

Ebbene, solo il 16 per cento degli americani, è riuscito a collocare il paese di Kiev in un raggio di 1800 miglia dalla posizione esatta – come si vede dalla foto, qualcuno l’ha inserito in Argentina, altri in Africa, altri addirittura in Groenlandia.

«La percentuale di laureati che hanno posizionato correttamente l’Ucraina è solo leggermente superiore alla percentuale di americani che ha detto al Pew, nell’agosto del 2010, che il presidente Obama era musulmano» sottolineano gli autori.

Inoltre, dalle domande seguenti emergeva che più gli intervistati avevano piazzato l’Ucraina prossima alla posizione attuale, più si dimostravano favorevoli all’intervento americano – anche militare. Una conferma che il valore geopolitico della questione, muove anche le coscienze individuali.

Ragion per cui, al sondaggio di oggi del Pew Center, andrebbe aggiunta un’importante tara, quella della superficialità, della disattenzione – ad essere eccessivi si potrebbe anche dire dell’ignoranza -, con cui fasce della società americana affrontano le questioni di politica estera. E allora, magari, più che parlare di scontro generazionale, si dovrebbe parlare di scontro culturale

Non c’è dunque da star troppo seri, si fosse in Obama: se a una lettura immediata, potrebbe sembrare che il presidente nonostante l’impopolarità diffusa, possa rispondere bene alle istanze dei giovani – almeno quelle che riguardano il come muovere il paese all’estero – in un’analisi più attenta ci si può accorgere che dietro ci sono diverse criticità, anche sensibili e di non buon auspicio per il presidente.

 

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