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Perché Papa Francesco non ha abolito lo Ior

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’articolo di Gianfranco Morra apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.

Ha tuonato forte il cappuccino Raniero Cantalamessa nella sua omelia davanti al papa in S. Pietro. E ha detto con enfasi predicatoria tante cose giuste. Come il pericolo che il danaro inquini la nostra vita, divenendo un padrone che ci costringe ad azioni immorali. Ha davvero ragione, è sempre accaduto. Ed è quasi obbligatorio riconfermarlo oggi, mentre prevalgono tonalità populiste e pauperiste. Del resto ce lo dice il Vangelo: o Dio o Mammona (Mt 6, 24; Lc 16, 13).

L’USO DEL DENARO

Era prevedibile che l’enfasi predicatoria privilegiasse solo un aspetto del problema: il «guai ai ricchi», così presente nel Vangelo. Il pulpito non è, come lo è la cattedra universitaria, il luogo delle distinzioni e delle precisazioni. L’altra parte della moneta è rimasta nascosta dalla prima. Perché il Vangelo e la tradizione della Chiesa sono certo contro l’abuso del danaro, quando non ce ne serviamo, ma ne diveniamo servi. Ma non sono contro l’uso legittimo del danaro e contro l’economia di mercato, tutta fondata sul danaro, che Giovanni Paolo II ha difeso come strumento di bene nella Centesimus annus: «La Chiesa, che non ha modelli economici da proporre, riconosce la giusta funzione del libero mercato e del profitto» (34 ss.).

IL CONCETTO DI POVERTA’ EVANGELICA

Ciò che occorre chiarire è il concetto cristiano di «povertà evangelica», per non confonderla con le sue degenerazioni, che soprattutto nel Sudamerica si sono espresse con quel marxismo ribollito che fu la Teologia della liberazione (condannata dal card. Ratzinger nel 1984). La povertà predicata da Cristo è uno stile di vita, che ha come primo scopo la purificazione interiore. Certo, dare danaro ai poveri, alle vedove, agli orfani è un dovere morale. Ma quando Cristo dice: «Vendi ciò che hai e da’ i soldi ai poveri», più del «dare» conta il «privarsi».

SALVEZZA PER TUTTI, POVERI EI RICCHI

Ecco perché la Chiesa ha santificato poveri e ricchi, purché i poveri fossero veri poveri e i ricchi distaccati dalla loro ricchezza. I poveri sociologici non sono i poveri evangelici. Spesso sono bisognosi e invidiosi, che condannano la ricchezza degli altri perché sperano di impadronirsene. Disprezzano i ricchi e odiano il danaro solo perché non l’hanno, come cantava Rilke nelle sue poesie francescane: «Non sono più poveri, sono solo non-ricchi, sfogliati e sfigurati, senza volontà e senza mondo».

L’annuncio di salvezza di Cristo è per tutti, poveri e ricchi. Gesù frequentava gli uni e gli altri. Mangia con i dirigenti dell’ufficio tasse, guarisce il servitore di un ufficiale dell’esercito romano, un ricchissimo cittadino, Giuseppe di Arimatea, paga il suo sepolcro. Beati i poveri «nello spirito», proclama (Mt 5, 3). Non basta essere privi di ricchezze per essere salvi.

Anche il comunismo dei primi cristiani era diverso dal mito semplicistico inventato dai socialisti. In alcune condizioni mettevano insieme la ricchezza. Mai la Chiesa lo ha imposto come un obbligo. Cantalamessa ha citato Giuda, che tradì Cristo per trenta danari. Certo, ma la vera ragione era diversa: Giuda Iscariota (Sicariota, da sica, spada) era uno zelota, un guerrigliero antiromano; quando si accorse che mancava del tutto in Gesù un impegno politico («il mio regno non è di questo mondo»), lo ritenne un traditore e lo denunciò (e come zelota fu condannato). Non lo fece per i soldi, ma per la causa.

IL CONTRIBUTO DEL DENARO ALLA SOCIETA’

Ogni pauperismo è irrealistico e fanatico. L’uso del danaro ha consentito la nascita del mercato, l’incremento del lavoro produttivo, l’aumento della ricchezza. Per i fortunati, certo, ma anche per tutti. Non va dimenticato il contributo gigantesco e incalcolabile che le imprese commerciali e industriali hanno dato al servizio sociale, o direttamente o con le tasse. I paesi dove anche i poveri hanno avuto vantaggi sono proprio quelli caratterizzati da una economia di mercato e di sviluppo, inconcepibile senza danaro.

UN MEZZO, NON UN FINE

Certo, al di là delle invettive di maniera, resta la verità che il danaro è un mezzo, non un fine dell’esistenza. Non a caso la dottrina sociale della Chiesa, mentre condanna ogni statalismo economico, propone, insieme, una economia libera di mercato e un uso solidale del profitto. Non si dovrebbe dimenticare che le banche sono state inventate dalla Chiesa cattolica. E che S. Tommaso d’Aquino, se condanna l’usura, allora esercitata soprattutto dagli ebrei, ritiene lecito il tasso di interesse sul danaro prestato, dato che chi presta si priva della possibilità di utilizzarlo per un guadagno.

LA SCELTA DI PAPA FRANCESCO

Con grande acutezza Papa Francesco, che pur odia il danaro, ha mantenuto l’Apsa, una banca che gestisce su scala internazionale le ricchezze del Vaticano; e lo Ior corrotto è stato corretto, ma non soppresso. Senza i soldi, infatti, neppure la Chiesa può fare il bene dei poveri. Il peccato non sono i soldi, ma il loro abuso. Bravo Cantalamessa: è uno scandalo che i manager guadagnino tanto. Avevano ragione i sindacati tedeschi, quando proponevano che «il rapporto tra i redditi più alti e più bassi non dovrebbe essere superiore a sette». Ma guai se gli stipendi fossero tutti uguali, solo un giusto aumento del guadagno stimola energie e creatività.

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