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Tra Andreotti e Moro

Per pura coincidenza vengono in questi giorni ricordati il primo anniversario della scomparsa di Giulio Andreotti e il trentaseiesimo dell’assassinio di Aldo Moro, le cui esperienze politiche si intrecciarono (e spesso si contrastarono) e sulle cui diverse sorti, come sui reciproci sostegni, si parlerà ancora a lungo. Proprio una settimana fa venivano rese note alcune lettere segrete di Andreotti (una delle quali scritta nel corso del sequestro Moro, col presidente del consiglio dell’epoca che si chiedeva perché mai i brigatisti rossi avessero preso Moro e non lui, che pure rappresentava anche formalmente lo Stato da abbattere), che fanno ancora una volta trasparire antiche ruggini fra i due, come anche mai interrotte comprensioni umane.

L’impressione che traggo nel rifiorire, quasi annuale, di interrogativi sulle condizioni di uffici centrali della nazione, con la loro consueta impreparazione ad ogni evento straordinario (oggi, l’insopportabile cedimento al potere degli ultrà calcistici che ricorrono anche all’assassinio di poliziotti e di tifosi avversari), e la riproposizione di antiche domande (spacciate per nuove) sul numero, la funzione, il ruolo dei servizi segreti delle principali intelligence del mondo, è che in troppi, specie nella cultura e nella politica di sinistra, si sbracciano a chiedere nuove commissioni parlamentari d’inchiesta, senza delle quali – si sostiene – non si potrà mai accertare la veridicità dei fatti di quel lontano 1978 (precedenti e successivi).

Io credo che questi gorgheggi mediatici, sobillati da gruppi parlamentari nuovi ma di antico riferimento a protagonisti comunisti dell’epoca, valgano a distogliere – ancora una volta – l’attenzione di cittadini, politici, ricercatori e storici dalle responsabilità politiche, non dalle vittime, ma dall’ampia folla che sorreggeva le imprese brigatiste in funzione di una opposizione concreta, continua, armata, intrigante e opportunista alla linea di solidarietà che si stava faticosamente costruendo fra la Dc di Moro, Zaccagnini e Andreotti e il Pci di Berlinguer e che, invece, la sinistra nel suo complesso, pur con le sue interne divisioni, cercava in vario modo di ostacolare, bloccare, respingere.

Sì, certo, le brigate rosse si trovarono impigliate in un gioco di interessi internazionali più grandi di loro; al punto da non potere più controllare i loro stessi progetti a mano a mano che le settimane passavano senza che alcuna delle richieste politiche dei terroristi fosse accolta. Ma si continua quasi ad allontanare l’attenzione dalla vasta area di consenso che la protesta brigatista incarnava, esprimendo un ribellismo diffuso proprio del ventre comunista e di quel piccolo mondo intellettuale radical-borghese-socialista che non tollerava più il primato politico ed elettorale democristiano.

Se un’indagine parlamentare è necessaria, essa riguarda le coperture finanziarie e militari straniere ai disegni brigatisti, non sulla presunta estraneità dei terroristi rossi ad un popolo italiano di sinistra: che sapeva d’essere minoritario e di non potere mai diventare maggioranza per via democratica-parlamentare, e piuttosto innalzava le proprie bandiere sulle demarcazioni internazionali in nome di una unità d’azione fra tutti i ribelli della terra e di sentimenti marxistici e anticlericali.

A dirla tutta, temo si tenda a rimestare episodi in fondo marginali solo perché non spiegati per distogliere l’attenzione dai possibili mandanti e ispiratori e finanziatori dei terroristi. E questo sarebbe il modo peggiore per ricordare Moro e la sua scorta, uccisi da un furore antidemocratico, mentre i brigatisti non erano arcangeli di virtù, di libertà né costruttori di democrazia sinistrorsa. Cioè minoritaria.

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