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Perché aggiornare l’immagine di Aldo Moro

I misteri che ancora avvolgono la vicenda del sequestro e della morte di Moro pesano come un macigno sulla nostra democrazia. Per questo, anche se distratti, comunque ne siamo colpiti, ora come allora, fin nell’intimo della coscienza individuale e collettiva: abbiamo bisogno di capire le ragioni più recondite di un atto di rara violenza, causa di gravi ripercussioni destinate nel breve e nel lungo periodo a mutare, i rapporti tra popolo e istituzioni. In effetti, finché non sarà squarciato il velo di reticenze annidate nei recessi di un potere sfuggente, ma reale e incombente, neppure sarà avviata in maniera concreta e con ritrovata fiducia una nuova fase della vita civile e politica del Paese. Senza verità non c’è moralità, quindi non c’è speranza di quel rinnovamento profondo che attinge alla serietà e alla bontà della battaglia per il bene comune.

SCAVARE PIU’ A FONDO

È tempo di aggiornare l’immagine di Moro. Il suo ricordo non può irrigidirsi nella ripetizione di liturgie predicatorie abbondantemente consumate nel corso degli anni. Non basta evocare perciò, alla stregua di un ennesimo riepilogo, la politica della solidarietà nazionale o la strategia della Terza Fase. Di sicuro, in quel disegno così articolato, c’è parte della verità che la nazione ha saputo metabolizzare, ovvero la consapevolezza del fatto che solo la reciproca disponibilità a superare, di volta in volta, steccati e pregiudiziali può consentire di vincere l’incombenza del declino sociale ed economico di un’Italia sempre in bilico, secondo Moro, tra forti passioni e strutture fragili.

Oggi interessa scavare più a fondo per andare alla ricerca di un motivo ispiratore originario nella lezione umana e politica dello statista pugliese. Interessa, cioè, riportare alla luce il pensiero e l’azione del giovane Moro, nel periodo del grigio e tormentato regime monarchico-badogliano, specificamente nella Bari del ’43-45, quando a differenza delle regioni centro-settentrionali il Meridione poteva già assaporare le speranze e le delusioni della pace, della ritrovata libertà, delle sperimentazioni democratiche.

LA RASSEGNA

Insieme ad altri, universitari e giornalisti, Moro aveva preso parte alla fondazione di un vivace settimanale: “La Rassegna”, diretto dal cattolico Antonio Amendola. Era lo strumento per mettere a fuoco, con fervida tensione morale, i grandi e i piccoli problemi della ripresa post-bellica. Sottilmente il fascismo sembrava riproporsi nelle smanie di una politica invadente e oppressiva; l’opportunismo e il cinismo colpivano l’ansia di moralizzazione, specie delle giovani leve intellettuali; i partiti, nati e cresciuti nel disordine, mostravano i segni premonitori della degenerazione; l’opinione pubblica si chiudeva a riccio e nutriva, per così dire, un’avversione crescente nei riguardi della democrazia; i protagonisti, infine, della nuova stagione antifascista apparivano anticipatamente guastati dall’ansia smodata per il potere. Il “Vento del Sud” spingeva ai margini della politica, e quindi inibiva la partecipazione alla vita pubblica, la massa dei cosiddetti indipendenti.

GLI INDIPENDENTISTI

Questo quadro doveva suscitare allarme, come ne suscita parimenti oggi un pressoché identico schema. Alla facile condanna Moro opponeva la necessità del dialogo, perché “la presenza degli indipendenti”, scriveva a conclusione di un articolo (firmato al solito “Mr”) del 12 aprile 1945, “costituisce un serissimo monito per i molti facili interpreti della vita sociale e politica di oggi”. Insufficienza e arroganza, a sentire le parole del futuro leader democristiano, minavano alla base la credibilità della classe dirigente in formazione. Per questo, inaspettatamente per noi che ne celebriamo di solito la prudenza e la vocazione mediatrice, egli invocava l’intransigenza: una politica incapace di comprendere il distacco di tanti uomini semplici dalla lotta per il riscatto della nazione, non era altro che un’espressione preoccupante della crisi spirituale e materiale. Quel sentimento di massa, che oggi potremmo definire antipolitico e qualunquistico, prendeva sostanzialmente origine da un grave deficit morale della democrazia.

IL GIOVANE MORO

Che dire? La severità di Moro, animata da profondo senso umanistico, andrebbe incarnata nella politica attuale. Dunque, non vale esclusivamente come memoria di una febbrile testimonianza giovanile. Moro, ai nostri occhi, si presenta o meglio si dovrebbe presentare con altra e ben diversa fisionomia: abituati all’immagine di un uomo di stato, che arriva persino a sfidare il Palazzo pur stando all’interno delle sue stanze, dovremmo invece meditare l’atteggiamento del giovane intellettuale cattolico, educato al primato dello spirituale, che dinanzi alla miseria della politica si sente in obbligo di fissare un’alternativa ancora più radicale: “Siamo stanchi delle parole vuote”, scriveva sempre nel 1945, il I febbraio, a poche settimane di distanza dal 25 Aprile. “Come siamo stati, così saremo sempre all’opposizione, senza egoismo, senza timore, senza speranza. Crediamo di assolvere così un’essenziale funzione di chiarificazione e purificazione. Crediamo di costituire una riserva perenne contro la disperazione dello scetticismo. Proprio perché non aspettiamo nulla, possiamo dare coraggio a chi aspetta”.

LA LEZIONE

Ecco la sua lezione alla primissima alba di una lunga e tragica esperienza politica: qualora risulti necessario, bisogna imboccare la strada dell’opposizione, ma non per fare un bel gesto, quanto piuttosto per dare coraggio a chi ne ha bisogno. Moro c’inviterebbe a non rassegnarci al degrado della lotta per la conquista o la conservazione del potere. Ci obbligherebbe pertanto a essere intransigenti – con noi stessi prima di tutto – perché solo in questo modo, al cospetto dei mali odierni della società e della democrazia, potremmo contribuire a rimuovere l’ostilità o perlomeno la diffidenza di milioni di cittadini che rifiutando una politica inadeguata, priva del fuoco vero della speranza e del rigore, vanno ad accrescere le file della protesta, quindi della contropolitica e del populismo, nel migliore dei casi dell’astensionismo. Ai nuovi indipendenti occorre parlare con un linguaggio più prossimo all’insegnamento di questo Moro inedito, vale a dire con parole più dense di valori e più comprensive di ciò che muove nel profondo il grande disagio, tanto morale quanto materiale, aspramente accumulato nel progressivo espandersi di una crisi senza precedenti immediati nella storia dell’Occidente.

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