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Quello che si sa sulla situazione in Libia

Da venerdì mattina, la Libia è tornata in guerra: o quasi. Un’operazione militare che prende il nome di “Dignità” (Karamah, in arabo) è stata sferrata nella zone orientali del paese dalle forze leali al generale in pensione Khalifa Haftar, ed è stato seguito la domenica da un assalto al parlamento – sembrerebbe per mano della milizia Zintan, fedele al generale. L’obiettivo sono i ribelli islamisti in rivolta da anni in Cirenaica; molti sono piccoli battitori liberi (nel paese si contano 1200 milizie), diversi sono legati ad al-Qaeda tramite il grande gruppo Ansar al-Sharia. Ma non solo: Haftar ha parlato al quotidiano saudita basato a Londra Asharq al-Awsat, dove ha espresso la volontà di «ripulire» il paese dagli estremisti e combattere la Fratellanza Musulmana (uno dei gruppi più numerosi in parlamento), responsabile di aver passato armi e documenti ai jihadisti – da notare, che la scelta del quotidiano, finanziato dalla famiglia saudita, non è casuale: Riad ha recentemente dichiarato la Fratellanza un’associazione terroristica, rendendola illegale sul proprio territorio.
Il governo di Tripoli ha disconosciuto l’operazione gridando al «colpo di stato» e lunedì ha mobilitato la milizia Scudo – forza paramilitare (islamica) molto potente, dagli stretti rapporti con l’esecutivo.

Haftar non era autorizzato a procedere. Tipo particolare il generale,: 71 anni, si professa adesso salvatore della patria e «pronto a diventare presidente delle Repubblica libica se il popolo vorrà», così come si considerava prima eroe della rivoluzione anti-Gheddafi. Ambizioso. Ex uomo del rais (guidò le azioni segrete nel Chad, dove fu fatto prigioniero nel raid francese di Wadi Doum e scaricato dal regime), era poi fuggito in Virginia, passando prima qualche anno in Zaire (siamo alla fine degli anni Ottanta), per riapparire in Libia nei giorni della rivolta contro il regime, con la speranza – e l’ambizione – di avere un ruolo di primo piano. Speranza non realizzata: ma Haftar nel tempo non ha mollato. Nel luglio del 2013 fece circolare un piano di dieci punti per risolvere i problemi nazionali. In cima al piano, c’era la sospensione del parlamento e la proclamazione dello stato d’emergenza: lo stop alle attività parlamentari è in effetti arrivato lunedì, per ovvie ragioni di sicurezza. La commissione elettorale ha poi deciso che il 25 giugno si andrà al voto, nel tentativo di placare la crisi. Per capire quanto questo possa essere una leva proficua alla soluzione, basta pensare che la destinazione dell’incontro doveva rimanere segreta, ma, poco dopo l’inizio, l’hotel in cui si teneva la riunione è stato bombardato dai caccia (non ci sono stati feriti).

È da tempo che il generale si muove per portare a sé lo scontento sul perenne clima d’instabilità lasciato dopo la guerra del 2011: lui stesso ha ammesso che le truppe sono pronte da poco dopo la caduta di Geddafi. A gennaio di quest’anno sarebbe stato visto a Misurata, città simbolo di quella guerra e delle milizie locali, per fare campagna. Terreno fertile, visto la situazione precaria e la necessità di affidarsi ad un uomo forte, in grado – almeno apparentemente – di ristabilire la sicurezza (la presidenza della repubblica è vacante da due anni, in attesa che la Costituzione sia approvata). Tanto che negli stessi giorni, vertici militari e dell’esecutivo si riunivano per pianificare il modo di bloccare il suo potere. Le prove generali di quello che sta succedendo ci furono a febbraio, quando andò in Tv in divisa a proclamare la sospensione del Parlamento e l’arrivo dei militari: quella volta però, tutto andò a finire in una specie di pagliacciata. Nessuno lo seguì, il golpe ci fu solo in televisione e l’allora presidente Zeidan sottolineò che si trattava di dichiarazioni senza sostanza.

Ora le cose sembrano andare diversamente: a distanza di tre mesi dal flop, il generale Haftar ha unito uomini e mezzi al suo servizio nell’autoproclamato Esercito nazionale libico, composto non si sa da chi, e non si sa bene da quanti: qualcuno dice siano 6 mila, dalla sua ci sarebbero le forze speciali (i resti della 32° Brigata un tempo guidata da Khamis, settimo dei figli del raìs), e pure diverse basi militari dell’aviazione (come quelle di Tobruk e Benina, Bengasi). Tanto che Venerdì il discusso governo del neoeletto Maiteeg, si è trovato nella paradossale situazione di lanciare il monito di no-fly-zone sopra Bengasi per bloccare l’operazione, alla sua stessa aviazione.

L’elezione del primo ministro (il terzo da marzo) – imprenditore filo-islamista, eletto proprio grazie al sostegno della Fratellanza – secondo molti frutto di brogli, è un trigger che si abbina a quello della sicurezza. Diversi sono stati gli attentati e gli atti di violenza per mano degli islamisti soprattutto nelle zone della Cirenaica – ma comunque diffusi nel resto del paese – culminati dieci giorni fa con l’uccisione del numero due dei servizi segreti. L’esercito sembra impotente nel contrastare lo strapotere delle milizie: non bastano le consulenze straniere e l’addestramento fuori dai confini (anche in Italia). Il governo appare molle.

La situazione sul campo, comunque resta confusa e asimmetrica, anche se apparentemente tranquillizzata, ma la Libia è un vulcano: a Tripoli le forze di Haftar presidiano la zona sud, dove sono posizionate le vie di comunicazione per l’aeroporto, mentre gli islamisti, che sollecitati dall’esecutivo si sono radunati in massa da Misurata, si trovano intorno alla città (secondo il Wall Street Journal con l’obiettivo della presa). A quanto pare però, non tutto il mondo politico è contro il generale: in queste ore è arrivata la notizia che il ministro degli Interni Mazeq, sosterrebbe Karamah. E per quello che si è saputo, l’azione di domenica a Tripoli, sarebbe stata sposata anche dall’ex primier Jibril, che controllerebbe adesso proprio la 32° Brigata e che temporaneamente sarebbe complice di Haftar per impedire che un uomo troppo vicino alla Fratellanza riesca a governare il paese.

Ma altri sarebbero gli alleati più importanti del generale: sulla Libia si starebbe giocando una partita regionale, molto più decisiva delle rivalità locali e tribali e degli annosi scontri tra Tripolitania e Cirenaica. Le parole di Haftar sono suonate simili a quelle dall’egiziano Sisi, tanto che l’operazione in Libia sembrerebbe un remake della svolta anti-islamica avvenuta in Egitto nel 2013. Qualcuno pensa addirittura che il grilletto sia stato azionato proprio dal Cairo – con l’appoggio aereo, ma lo stesso Haftar ha ufficialmente smentito. Sulla Libia si rischia di rivivere «le guerre per procura tra i paesi arabi», sottolinea Maurizio Molinari, inviato della Stampa a Gerusalemme. Gli interessi egiziani, che cercano di stabilizzare la caotica situazione al confine orientale prima che diventi luogo di attecchimento e concentrazione del terrorismo jihadista, si contrappongono a quelli algerini, che sono intenzionati alla difesa dei giacimenti occidentali in Tripolitania. Allargando ancora poi la situazione a scenari più ampi, dove si rivivrebbero le spaccature interne al Consiglio di Cooperazione del Golfo: da un lato Arabia Saudita ed Emirati Arabi, dall’altro il Qatar, da sempre portafoglio della Fratellanza.

Gli Stati Uniti per il momento si limitano ad osservare (il Dipartimento di Stato ha definito la situazione «liquida»), concentrati soprattutto ad evitare episodi come quelli che portarono alla morte dell’ambasciatore Chris Stevens, proprio a Bengasi (l’11 settembre del 2012). A Sigonella sono arrivati già da qualche giorni oltre duecento Marines, a cui si sono aggiunti altri 4 C-22 Opsrey pronti all’intervento in caso di evacuazione delle sedi diplomatiche. Ambasciate che sarebbero state già evacuate da Arabia Saudita e Algeria – che avrebbe inviato le forze speciali per tirare fuori i propri rappresentati diplomatici. Poche ore fa, un tecnico cinese sarebbe stato ucciso a Bengasi da militanti islamisti, mentre in un altro attentato sarebbe rimasto ferito il capo della Marina libica.

@danemblog

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