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Egitto, il futuro dei Fratelli Musulmani con l’elezione di al Sisi

Pubblichiamo un articolo dell’Ispi tratto da un dossier sulle elezioni in Egitto

Con quello che a mio avviso si configura come un vero colpo di stato, nell’estate del 2013 l’esercito è intervenuto pesantemente a interrompere la scalata al potere della Fratellanza musulmana. Il presidente democraticamente eletto, Muhammad Morsi, è stato defenestrato; l’organizzazione dichiarata fuori legge; i capi politici del movimento arrestati e messi in condizione di non nuocere, molti addirittura condannati a morte. Conquistata la maggioranza in parlamento e collocato un suo esponente ai vertici dello stato, la Fratellanza sembrava dover dominare la transizione rivoluzionaria in Egitto, avviando il paese verso un’islamizzazione delle istituzioni prima ancora che della mentalità e della cultura che, peraltro, non sembrava presentare caratteristiche particolarmente radicali e fondamentaliste. Il colpo di stato ha rimesso l’esercito al centro della vita politica egiziana e ha rappresentato una disfatta e un’esclusione totale della Fratellanza dall’agibilità politica.

UN’INTERPRETAZIONE STORICA

L’accaduto consente di collocare in prospettiva l’attività e la propaganda islamista degli Ikhwan, aprendo la strada a una prima interpretazione storica di carattere scientifico. Nonostante alcune frange estreme della Fratellanza non abbiano mai rinunciato alla strategia del sollevamento violento e della lotta armata, il mainstream dell’organizzazione ha, durante le presidenze di Sadat e Mubarak, pervicacemente cercato una legittimazione politica nel quadro della legalità, credendo – a torto – che la sua proposta politica avrebbe coagulato dietro le bandiere dell’islamismo riformatore il grosso della popolazione egiziana (profondamente religiosa). Ciò prefigurava un ruolo egemonico – in senso gramsciano – e non solo contro-egemonico del movimento. L’errore di valutazione consisteva nell’auspicio, troppo teorico e teoreticamente semplificativo, che la soluzione islamica (al-islam huwa al-hall) avrebbe risolto come per incanto i problemi dell’Egitto, sul piano soprattutto economico e sociale prima che politico e istituzionale. I percorsi e le scelte della Fratellanza, dunque, potevano essere declinate nella direzione “intellettuale e morale” che i Fratelli credevano di poter capeggiare in Egitto. La speranza, o addirittura la malposta certezza, che l’Islam avrebbe potuto costituire il collante più solido dell’identità egiziana, ispirava il cammino costituente della Fratellanza che l’intervento dell’esercito ha brutalmente e inopinatamente interrotto.

I QUESITI CENTRALI

Questo framework interpretativo solleva, di concerto, un paio almeno di quesiti centrali. L’esclusione totale della Fratellanza dalla scena politica potrebbe preludere a una sua radicalizzazione? E ancora: ha la Fratellanza chance reali di sopravvivere alla repressione? Al primo quesito si può, cautamente ma con un certo margine di probabilità, rispondere in modo positivo. Di fronte all’emarginazione e all’ostracismo violento, non si può escludere che un nuovo apparato segreto, come ai tempi di al-Banna, possa scegliere la strada di una contro-egemonia movimentista che punti a colpire e rovesciare le istituzioni e quanti si riparano dietro il paravento della volontà popolare per risuscitare la dittatura mubarakiana. Ma anche al secondo quesito poco sopra impostato si può cautelativamente rispondere in modo positivo. Non solo infatti credo che la Fratellanza abbia comunque mantenuto, anche se non rinsaldato, le sue radici nella società egiziana così legata alla religione e al suo ruolo pubblico (tenendo presente, per valutare la forza dei singoli attori in gioco, che il Cairo non è tutto l’Egitto, e che l’Egitto profondo e rurale conserva una visione del mondo in cui il fatto religioso è assolutamente centrale). Ma soprattutto proprio la caratterizzazione in senso politico dell’islamismo militante sembra dover garantire una resilienza del messaggio e della prassi di fronte alla repressione indiscriminata. Ciò si lega alla fecondità e alla (relativa) novità della riflessione politica islamista negli ultimi anni, soprattutto per quanto riguarda pensatori prestigiosi, in qualche modo legati agli Ikhwan, come Yusuf al-Qaradawi e Muhammad ‘Ammara.

POST-ISLAMISMO LONTANO

Quanto detto possibilmente non sarà dimostrabile e verificabile nel breve periodo, ma già troppe volte l’islamismo politico è stato dato per morto, mentre invece ha ritrovato in contesti diversi e con diverse velocità modo per riattualizzarsi. In altre parole, non credo che ci si debba collocare in un orizzonte di post-islamismo (categoria fortunata ma in molti casi contestata dai fatti), sebbene possa risultare vero che, diversamente dalla Fratellanza musulmana, molti egiziani stanno vivendo un processo di secolarizzazione, cioè di riduzione della religione all’ambito privato.

Massimo Campanini, è docente di Storia dei Paesi islamici all’Università degli Studi di Trento
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