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Vi spiego la tecnica della provocazione di Renzi sulla Rai

Vi spiego la tecnica della provocazione politica.

Quando si vuole attaccare un soggetto-bersaglio per conquistarsi il favore della pubblica opinione, in questo caso mettendo sotto tiro la “Rai degli sprechi”, si approfitta delle presunte disfunzioni propagandate per anni. In questo caso, dalla stampa scandalistica e dagli editori che da sempre vogliono mettere le mani sull’azienda pubblica.

La provocazione deve utilizzare soluzioni oggettivamente sbagliate per correggere le cosiddette disfunzioni: solo così si ottiene una reazione smodata, pavloviana, del soggetto-bersaglio sotto attacco. Quest’ultimo parte da una condizione di debolezza presso l’opinione pubblica e invece di mettersi subito dalla parte dei cittadini contestando solo la misura sbagliata ma non l’obiettivo di colpire i cosiddetti sprechi, apre la stura alla ripetizione dei soliti luoghi comuni che lo mettono definitivamente alle corde.

Vediamo come sono andati i fatti: nel decreto legge 66/2014, quello che reca misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale, comunemente noto come il provvedimento che ha messo “80 euro in busta paga”, all’articolo 21 inserito nel Capo II (Amministrazione sobria) sono previste una serie di misure concerneti la Rai. In primo luogo, viene eliminato l’obbligo finora previsto per legge a carico dell’azienda di avere una sede in ciascuna Regione e provincia autonoma. In secondo luogo, si prevede la possibilità di cedere quote di società partecipate: il riferimento implicito è a Rai-Way. Infine, si stabilisce che le somme da riversare alla concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo, la Rai, sono ridotte per l’anno 2014 di 150 milioni di euro.

Considerazioni.

In primo luogo, l’azienda era obbligata per legge a tenere una sede in ciascuna Regione, e ciò per garantire il funzionamento del servizio informativo regionale che è alla base di Rai 3. Come si possa fare in futuro informazione regionale senza avere una sede in ciascuna Regione è un mistero, ma non spetta qui sciogliere la evidente contraddizione logica e funzionale tra l’obbligo di svolgere un servizio informnativo a livello regionale, che permane comunque intatto, ed il venir meno dell’obbligo ad avere una struttura in ciascuna regione. Questa doveva essere la prima contestazione, basata sulla logica.

In secondo luogo, nel decreto-legge si prevede che nel 2014 lo Stato non “riversi” alla Rai 150 milioni di euro già incassati attraverso il pagamento all’Erario da parte dei cittadini del canone di abbonamento. Si può ritenere che il mancato versamento derivi dalla stima dei minori costi che deriverebbero alla Rai dal venir meno dell’obbligo ad avere sedi in tutte le Regioni. Se ciò sia vero o meno, o che si tratta solo di una maniera per obbligare la Rai a ridurre i propri costi di esercizio, non importa affatto.

Il fatto è che i cittadini hanno pagato per legge un canone commisurato ai costi previsti dalla Rai per il 2014 e che lo Stato effettua la riscossione del canone in quanto ha natura tributaria attraverso l’U.R.A.R. (Ufficio Riscossione Abbonamenti Radiotevisivi), e che pertanto deve riversarlo integralmente alla Rai. Trattenerlo, o peggio destinarlo alla copertura di una quota dei costi derivanti dal credito di imposta per mettere 80 euro in busta paga è un abuso. Si tratta di una disposizione costituzionalmente illegittima: lo Stato può imporre una riduzione dei costi del servizio pubblico televisivo, ma deve restituire la differenza ai cittadini che hanno già pagato un canone superiore commisurato ai maggiori: non può, a nessun titolo, nè intascarli nè usarli diversamente. Questa era la seconda obiezione che doveva essere mossa al decreto: se ci sono sprechi, e lo Stato vuole che la Rai risparmi, il risparmio deve tornare nelle tasche dei cittadini.

In terzo luogo, si è data la stura a tutto il consueto arsenale “anti-Rai”. C’è la questione del personale, che alla Rai sarebbe numericamente e come costo di molto superiore a quello di Mediaset o di Sky: ovvio, perché l’una e l’altra comprano programmi già fatti. C’è poi la questione dell’affollamento pubblicitario, che per la Rai è inferiore rispetto a tutti i concorrenti: il canone copre il mancato introito pubblicitario per la Rai, a parità di ore di trasmissione. Il mercato pubblicitario è quello che è: non ci sono ricavi per altri gruppi. Anche per la pay-tv, oltre a Sky, di spazio non ce n’è. Dietro gli sprechi, veri e presunti, c’è una politica che si pavoneggia di fronte ai cittadini mentre i soliti gruppi editoriali non vedono l’ora di comprarla.

Una reazione pavloviana, dunque, ha messo la Rai all’angolo. La provocazione è riuscita in pieno. Ma ai cittadini che hanno pagato il canone basta mandare una lettera per chiedere il rimborso della differenza….. Non mi provocheRAI!

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