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La Nordcorea di Kim, tra mito e realtà

Cosa sappiamo della Corea del Nord? A volte il solo fatto di porre questo tipo di domanda (per la quale spesso si sfoderano risposte pronte: “è un posto terribile”, ed immediate contro-domande: “perché, cos’altro dovremmo sapere?”) scatena dibattiti accessi, su forum, blog e media internazionali.

QUALCHE NOZIONE SBAGLIATA SU PYONGYANG

Il Paese, per come viene percepito a livello internazionale, è sinonimo di tutto ciò che non vorremmo vedere: violazione dei diritti umani, povertà, malnutrizione infantile, rischio di proliferazione nucleare, rischio di guerra imminente, per citare alcune delle parole più comunemente associate alla Repubblica Popolare Democratica di Corea (questo, il nome reale, infatti, accorciato internazionalmente in ‘DPRK’; il nome ‘Corea del Nord’ è più noto, ma meno corretto).

La DPRK ha cominciato ad occupare uno spazio crescente nei media a meta’ degli anni ‘90, quando il collasso economico del paese mostrava la sua fase finale (e non iniziale, come molti credono – il Paese è semplicemente fermo da allora, ma la crisi veniva da lontano, dagli anni ‘70 e ‘80) con una serie di carestie che in pochi anni, secondo stime delle nazioni unite, ha spazzato via tra il 5 ed il 10 per cento della popolazione.

Da allora, l’attenzione dei governi occidentali, delle ONG, degli esperti di relazioni internazionali, dei gruppi religiosi e delle organizzazioni internazionali si è concentrato principalmente su alcuni aspetti, tralasciandone altri, in una visione piuttosto dicotomica del paese: da una parte il governo, dall’altra i cittadini, senza nessuna forma di apparente interazione.

Oggi sappiamo (o meglio, sentiamo e leggiamo) molto a riguardo delle ambizioni nucleari del paese, del suo apparato militare, delle presunte stranezze della famiglia Kim (che da più di sei decenni governa il paese), dei rapporti di dipendenza dalla Cina, e dell’odio (apparente) per gli Americani. Di moltissimi altri aspetti (per citarne alcuni: il ruolo della donna nella società, l’educazione, l’infanzia, la cultura) sappiamo molto meno, e spesso ciò che pensiamo di sapere deriva da supposizioni legate agli aspetti più conosciuti.

Ad esempio: il Paese è ancora decisamente etichettato come ‘stalinista’, o ‘comunista’, nonostante abbia rimosso qualsiasi riferimento (da tempo puramente formale) a dottrine marxiste o comuniste dalla propria costituzione, diversi anni fa. Allo stesso modo, la Corea del Nord viene paragonata a paesi in via di sviluppo, data la sua dipendenza dagli aiuti internazionali, quando la realtà è molto diversa: la Corea del Nord è infatti un paese con un passato industriale importante, che fino alla fine degli anni ‘60 era davanti alla Corea del Sud (oggi potenza economica) secondo tutti gli indicatori economici e sociali.

Occorre quindi analizzare gli aspetti meno conosciuti di questo paese per capire che quasi tutto quello che viene detto a proposito della DPRK è spesso fuorviante.

LA SCUOLA DI STILE “FASCISTA”

Pensiamo alla scuola: il sistema educativo della Corea del Nord ricorda molto da vicino quello dello Stato corporativo fascista. Una serie di scelte e passaggi obbligati, convogliano buona parte della popolazione in percorsi di studio (e quindi di carriera, se così si può dire), e di vita decisamente poco flessibili. La scelta è pesantemente condizionata dalle caratteristiche del sistema di classificazione sciale, detto Songbun, istituito negli anni ’50 e ’60, per dividere la popolazione in tre classi principali, secondo criteri di fedeltà al regime.

Gli appartenenti all’élite sono quasi automaticamente indirizzati verso le migliori università e le scuole speciali, le accademie militari, maschili e femminili, presso le quali si formano i dirigenti ed i membri importanti del partito, scuole ed università con enfasi sulle capacita linguistiche per futuri diplomatici e così via. E’ un vero e proprio sistema di caste, che potremmo per certi aspetti paragonare a quello esistente in India, o alle disparità di trattamento riservato ad alcune minoranze in paesi che consideriamo avanzati, come il Giappone.

Questo perché il regime ha bisogno di riprodursi continuamente, come ha fatto per più di sessanta anni praticamente indisturbato, mantenendo saldo non solo il potere militare (che a Pyongyang è molto meno cruento e ‘visibile’ di quanto si possa pensare: l’aspetto coercitivo esercitato dallo Stato verso le varie classi sociali è molto più nascosto di quanto la retorica non faccia pensare), ma sopratutto il coinvolgimento pressoché totale della popolazione, a livello fisico, sociale, ed emotivo.

IL PANORAMA MEDIATICO

Qui entrano in scena i media Nordcoreani, anch’essi spesso ridotti a semplice ‘altoparlante’ del regime, e che invece costituiscono parte integrante del sistema di coinvolgimento (potremmo quasi chiamarlo un processo di ‘fidelizzazione’) del cittadino. Il dipartimento della propaganda non ha mai perso un colpo, anche durante gli anni più tragici della carestia, i fondi per la propaganda non sono mai mancati. Eppure ciò che i media (cosi come il cinema, la letteratura e le arti figurative) producono non è semplice propaganda: si tratta di un sistema elaborato di coinvolgimento sociale, intriso di valori (la purezza razziale, la fierezza del popolo, la continua lotta per l’indipendenza dalle potenza vicine, Cina e Giappone in primis, misti ad una dose di xenofobia), che pescano nel profondo dell’animo di quasi ogni Coreano, da entrambi i lati della DMZ.

LA SUPER-DONNA IN SALSA NORDCOREANA

Che dire infine delle differenze di genere nella società? Nella DPRK le donne hanno un doppio onere: la trasformazione socialista degli anni 40 e 50 ha concesso loro alcuni privilegi inimmaginabili pochi anni prima (ad esempio, la riforma agraria del del 1948 concedeva alle donne il diritto di possedere e coltivare la terra per conto proprio, laddove sotto l’occupazione giapponese le donne erano diventate letteralmente merce da trasportare nei campi militari nipponici); tuttavia, la componente tradizionalista della cultura nordcoreana ha continuato a pretendere che la donna fosse al tempo stesso madre, moglie e custode delle faccende familiari, oltre che lavoratrice e soldato.

Le donne Nordcoreane oggi sono involontarie protagoniste di una fase di trasformazione (non necessariamente un ‘cambiamento’ in termini occidentali) del paese, che ha di fatto accettato la coesistenza di una economia ufficiale, pressoché improduttiva, con una non-ufficiale, guidata da sole donne, in mercati semi-legali, o comunque tollerati a malincuore dal regime.

Esse sono al tempo stesso protagoniste di numerosi report stilati da ONG internazionali dedicati al problema del traffico di persone e della prostituzione: secondo stime ufficiali Sudcoreane, la maggior parte dei Nordcoreani che lasciano il paese sono donne, di eta compresa tra i 25 ed i 45 anni. Una parte di loro arriva a Seoul dopo mesi, se non anni di sacrifici e rischi, passati nella Cina nordorientale. Molte altre però finiscono come vere e proprie schiave, vendute a scopo di matrimonio a uomini cinesi delle fredde province del nord, che non possono permettersi di emigrare a Pechino o Shanghai.

GUARDARE OLTRE LA CAPITALE
Il punto quindi, è di cercare oltre la retorica della crisi nucleare, o delle parate militari. La Corea del Nord, oggi, siede al centro della più importane, dinamica e prosperosa area del pianeta. La sua esistenza non può essere ridotta a semplice ‘residuo della guerra fredda’, ed il suo futuro dovrebbe essere oggetto di piani che vadano oltre la semplice contingenza.

Le élite militari, le loro famiglie, e i ‘privilegiati’ abitanti della capitale, Pyongyang, sono all’incirca un milione e mezzo. Dei rimanenti 23 milioni di Nordcoreani, del loro quotidiano, del loro futuro sappiamo ancora troppo poco, ed è senza dubbio ora di colmare questa lacuna con studi che vadano oltre gli aspetti strategici.

pubblicato nel numero di giugno della rivista Formiche

Gianluca Spezza lavora come Research Director per NK News, il maggior sito mondiale per l’analisi lo studio e le notizie relative alla Corea del Nord ed alla penisola Coreana in genere. Dopo una laurea in studi umanistici a Torino nel 1999 e molti anni di lavoro all’estero, ha conseguito nel 2013 un Master in scienze sociali (Asian Studies) presso l’università di Turku, in Finlandia, ed è al momento attivo come analista, scrittore e consulente per questioni internazionali, con focus sulla Corea e l’Asia orientale. Gianluca si occupa anche di turismo sostenibile con l’associazione Bellandare e, quando ha tempo, pubblica musica sotto il nome di Dear Baby Deer.

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