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Brasile 2014, contagio globalista. Il taccuino mundial di Malgieri

L’Europa del calcio esce con le ossa rotte dal Mondiale brasiliano. Soltanto sei squadre del Vecchio Continente figurano tra le sedici che disputeranno gli Ottavi di finale. A parte la Germania, che pure non ha brillato, a tenere alto l’onore europeo restano la Francia, l’Olanda, il Belgio, la sorprendente Svizzera e l’incredibile Grecia di Giorgos Samaras, attaccante essenziale e ruvido che nel Celtic vive le glorie che la patria gli nega.

La Grecia è l’avamposto di un’Europa che non crede a se stessa; l’Europa dei burocrati senz’anima e dei tecnocrati che tengono la cravatta allacciata anche quando un Cannibale uruguaiano si aggira per le contrade sportive assaggiando carne ben frollata. Gli ellenici arrivano laddove i blasonati Paesi non dovrebbero consentirgli di arrivare. Poveri in canna, derelitti come paria e orgogliosi per discendenza erano fino a pochi giorni fa i parenti poveri delle grandi potenze calcistiche. Ma con la palla si fanno giochi che gli spregiudicati prestidigitatori di Francoforte neppure si sognano. Si manda in paradiso un popolo, per esempio, condannato dai contabili dell’usura internazionale alla Geenna, apocalittica valle di perdizione eterna dove dimorano i dannati.

Ma i popoli non sono merci che trovano ricetto nelle colonne del dare e dell’avere. La Grecia che partorì l’Europa non si chiese quale sarebbe stato il suo destino. In tre o quattro millenni ne ha viste di tutti i colori, ma tenendo sempre accesa la fiaccola della civiltà. Potevano spegnerla i ragionieri dell’Unione decretandone, come abbiamo temuto, addirittura la fine? Ma no, se l’anima non è rattrappita ed i piedi sono buoni le nazioni vanno avanti. E da Maratona in poi nessuno più l’ha tolto dalla testa agli ellenici che, poveri ma non miserabili, s’attaccano al loro mito di forza e bellezza per tornare a credere di poter avere un destino.

Mai un gesto sportivo come il rigore trasformato da Samaras, ai danni dell’ottima Costa d’Avorio, che ha segnato il superamento del turno della Grecia, è stato letto come la disperata conferma di un protagonismo sportivo certo, ma che lo supera indiscutibilmente, di una nazione intera che se non si è scrollata di dosso l’immane debito pubblico e l’internazionale sudditanza economica, ha fatto riapparire la gioia mediterranea in terra sudamericana, supplendo alle deprecabili manchevolezze di Italia, Spagna e Portogallo affondate nell’apatia frutto della sazietà che rende molli e privi di sana aggressività.

La Grecia è oggi l’Europa che non c’è – o c’è solo in minima parte – in Brasile. La rappresenta molto più di Germania e Francia, per una sorta di etica dei vinti che hanno fame di rinascenza. Naturalmente l’augurio è che tutte le formazioni europee arrivino il più lontano possibile, ma sentirsi greci, piuttosto che tedeschi, francesi, svizzeri, belgi o olandesi, con tutto il rispetto e l’amore di questi nostri fratelli, è più facile, più bello, più appagante.

Se il Modiale brasiliano ha segnato la fine della “centralità” calcistica europea con l’esclusione dalla fase finale delle vecchie potenze continentali, ha proiettato sullo scenario internazionale nuovi soggetti che vanno ad affiancarsi al Brasile e all’Argentina, come il Cile, la Colombia, la Costa Rica, l’Uruguay, gli Stati Uniti (non più Cenerentola, dopo la cura Klinsmann), in attesa che si confermino le nazionali africane ed asiatiche. Ciò vuol dire che i ricchi investimenti – provenienti soprattutto dai Paesi del Golfo e dagli oligarchi russi che preferiscono foraggiare i club europei in cambio di altre fortune oltre a quelle immediatamente finanziarie, come l’acquisto d’ influenza presso le il notabilato politico e mediatico continentale – nei prossimi anni si sposteranno verso i Paesi emergenti dai quali non sarà più necessario ai calciatori emigrare per conquistare fama e fortuna sui campi più prestigiosi.

Se l’Europa del football vuole salvarsi e riprendersi l’egemonia che sta perdendo, non deve cercare in esotici campionati “stelle” che spesso si rivelano precocemente cadenti ed ingaggiarle sbarrando le porte a giovani indigeni promettenti che però non possono garantire subito mirabolanti successi. E, nello stesso tempo, dovrebbero trovare i club e le rappresentative nazionali la specificità che da tempo hanno perduto.

Si dirà che il calcio, come tutto il resto, non poteva restare immune dal contagio globalista. È vero, ma quanto ci ha perso in termini di spettacolarità, di bellezza, di fascino? Il football di sir Stanley Matthews era molto diverso dal futbol di Mané Garrincha e quello di Mario Kempes non aveva nulla da spartire con l’altrettanto eccentrico ed inimitabile calcio di Johan Cruijff, così come gli stellari Pelé e Maradona avevano in comune la genialità, non certo l’interpretazione del gioco. E perfino Yashin e Gilmar, grandissimi nel loro solitario ruolo, erano diversissimi. Le tattiche, le tecniche, le assimilazioni ben oltre le vocazioni dei singoli e dei   gruppi stanno uccidendo il calcio. E quello europeo è in decadenza per mancanza di idee, pur non mancando di talenti, mentre altrove si cerca con l’agonismo di nascondere l’assenza di superlativi talenti, a parte le ovvie eccezioni.

Abbiamo visto come giocano le squadre africane. Diamo loro il tempo che l’economia si sviluppi e tanti Drogba non avranno più bisogno di cercare casa lontano dai focolari domestici. E non è detto che prima o poi non s’inventino formule fortunate che rivoluzionino il calcio come accadde quando, grazie agli olandesi volanti degli anni Settanta, esso divenne “totale”.

Comunque vada, in Brasile si è aperto un laboratorio. Perciò, almeno finora, quel che si è visto non è stato seducente come era lecito attendersi. Ma è solo questione di tempo. E non è detto che il calcio per reinventarsi non torni per esempio al passato; un passato fatto di terzini, mediani, liberi, stopper, ali, mezzali e centravanti. E di numeri che sulle maglie significano qualcosa.

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