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Higuain come Di Stefano? Il taccuino mundial di Malgieri

Dopo ventitré anni un altro “napoletano” riporta l’Argentina tra le prime quattro nazionali del mondo. Gonzalo “Pipita” Higuain rinnova il “miracolo” che era riuscito a Diego Armando Maradona in Messico nel 1986. Il particolare che quella Seleccion fosse incomparabilmente più forte dell’attuale che si disputerà l’accesso alla finale con l’Olanda nulla toglie alla storica impresa compiuta contro il Belgio dalla squadra di Sabella. Il centravanti partenopeo, che non aveva certo brillato fino al gol decisivo messo a segno contro la formazione del suo amico “napoletano” Mertens, si conquista un posto tutto suo nel Mondiale brasiliano e passerà alla storia del calcio argentino come colui che ha permesso alla sua nazionale di sfatare una maledizione che durava da troppo tempo. Non è poco dalle parti di Buenos Aires; è tantissimo a Napoli e dintorni. Qualcuno (ma non Benitez, ben più concreto e razionale) ci legge fausti auspici per prossima stagione.

Non è tempo di illusioni, né di illusionisti. Infatti, Higuain è un calciatore che a venticinque anni ha già dimostrato quello che vale: non è ancora letteratura – come non lo sono Messi e lo sfortunato Neymar – ma non è detto che non lo diventi. E’ uno dei pochi calciatori in circolazione che colloquia con la palla, l’addomistica quando è scorbutica, la blandisce quando non sembra incline a caracollare sul suo piede;  ma fa valere anche la sua fisicità, come il vecchio maestro Alfredo Di Stefano che lotta come un leone per sopravvivere all’ennesimo infarto. Il mitico attaccante del Real Madrid, argentino di nascita e spagnolo di adozione, aveva il piede gentile ed il cinismo di un gaucho. Le difese le metteva a terra e poi s’inebriava quando il suo colpo andava a segno, magari dopo aver raccolto un assist di Gento o di Puskas.

Ho pensato al vecchio don Alfredo in queste ore e mi è venuto in mente che Higuain, “madridista” ed argentino come lui, che potrebbe rinnovarne il ricordo, a Napoli come nella Seleccion. E’ questione di tempo  e di fortuna, il valore va soltanto sfruttato, come ha fatto contro un promettente Belgio destinato a crescere e a riproporre, in pochi anni, i fasti che furono dell’Olanda tanto tempo fa.

Quell’Olanda che proprio contro l’Argentina nel 1978, quasi inconsapevolmente rilanciando  lo schema nietzscheano dell’ “eterno ritorno”, a dimostrazione della deità del pallone, come direbbe il mio amico Giancristiano Desiderio, vorrà prendersi ciò che perse nella finale di Buenos Aires contro l’Albiceleste allo Stadio Monumental, quando un immenso Mario Kempes, autore di una tripletta mai più dimenticata, con la sua lunga chioma che sembrava una bandiera di vittoria s’involò verso la porta di Jongbloed, sbaragliando Krol, Jansen, Brandts e Neeskens che invano cercarono di raggiungerlo inseguendo con tutta la disperazione che avevano nelle gambe e nei cuori, e pose il sigillo finale ad una vittoria storica che immetteva l’Argentina nella leggenda del calcio.

Adesso è semifinale. Le porte dell’inferno o del paradiso possono riaprirsi. La nazionale di Messi parte con il favore del pronostico, ma dall’altra parte Robben e van Persie non ci stanno a fare da sparring partner. Sarà una sfida nella quale non si giocherà soltanto una partita di calcio, ma andrà in scena  il seguito di una storia ormai antica – compresa la competizione tra universi calcistici segnati da geopolitiche profondamente diverse – che proporrà volti che hanno fatto la storia del calcio, accanto a quelli dei protagonisti che scenderanno in campo. E conterà poco per gli olandesi ricordare che già nel 1998, ai mondiali in Francia, eliminarono ai quarti gli argentini. Non sarà la stessa cosa.

Così come, per quanto già visto, lo scontro tra  Germania e Brasile che si affronteranno nella prima semifinale, rimanderà film in bianco amati fino alla commozione.  I padroni di casa acciaccati, i bianchi di Low in forma strepitosa. Non ci sarà la stella più attesa dei carioca, Neymar, per uno sventurato intervento di Zuniga sulle sue vertebre. E mancherà anche il regista della difesa, Thiago Silva, inopinatamente squalificato per una sua leggerezza. David Luiz, vero leader della Seleçao, mistico e condottiero, come un gesuita armato del Diciassettesimo secolo, verosimilmente prenderà per mano  la squadra e tenterà di condurla alla vittoria. Ma non ci si attendano colpi ad effetto: i tedeschi giocano come sempre e sono i veri eredi di quell’Olanda che inventò il “calcio totale” che gli “arancioni” non praticano più.

I brasiliani, invece, non accarezzano più la palla e non giocano alla maniera dei fenomeni del 1970: purtroppo per loro e per noi  praticano un futébol scolastico e quasi sempre scontato. E poi non ricorrono a stratagemmi come quello che resterà nella storia del football escogitato da Van Gaal. Non s’era mai visto un allenatore mandare in campo al 120’, dopo sofferti tempi supplementari, un portiere para-rigori. E’ accaduto a Salvador de Bahia, quando il ct olandese ha sostituito Cillessen con lo “specialista”. Si chiama Timothy Michael Krul, ha ventisei anni, difende la porta del Newcastle, aveva indossato cinque volte la maglia della nazionale maggiore prima di negare alla Costa Rica il passaporto per la semifinale. In venti edizioni della Coppa del Mondo non era mai accaduto, dicevo. Ma non nella storia del calcio. Nel 1996, infatti, l’allenatore del Castel di Sangro “dei miracoli”, Osvaldo Jaconi, sostituì il portiere titolare Roberto De Juliis con la riserva Pietro Spinosa prima dei rigori nel corso della finale play off con l’Ascoli. Fu grazie alla parata decisiva dello “specialista” che la squadra abruzzese fece il suo trionfale ingresso in serie B e vi restò due stagioni. Van Gaal, insomma, non ha inventato niente. E probabilmente neanche lo sapeva.

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