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L’economia italiana e il paradigma della sua crisi

occupazione

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

I recentissimi indici ISTAT sulla povertà in Italia ci dicono molte più cose di quanto non si creda.
Intanto, i dati: 3 milioni e 230mila famiglie sono sotto la soglia della povertà relativa. La povertà relativa è quella riferibile a consumi minori della media nazionale.

E quindi, prima deduzione, non servono, se non come strumenti (legittimi) di propaganda le elargizioni una tantum, che appaiono come quella immagine dei Vangeli Apocrifi in cui il Bambino Gesù tenta di versare tutta l’acqua del mare in un solo buco sulla spiaggia.

E se la povertà media aumenta in fase di calo generalizzato dei consumi vuol dire che la quota di famiglie in fase di povertà relativa tende ad aumentare ceteris paribus.
Gli ultimi dati sul calo dei consumi 2007-2013 sono del tutto significativi: -11,7% alimentari e bevande, tabacchi e alcoolici -13,6%, vestiario e calzature -16,9%, Casa e bollete sono invece in aumento del 2,7%, mobili e elettrodomestici calano del 13,9%, i costi sanitari aumentano del 3,1%, Istruzione -6,3%.

Ovvero, la crisi macroeconomica è divenuta diffusa, e ciò deriva dalla lunga scelta di espandere senza contropartite la spesa pubblica in relazione al PIL, il che ha fortemente limitato l’uso anticrisi della leva fiscale, mentre l’economia italiana si inseriva nella “gabbia d’acciaio”di weberiana memoria del sistema Euro.

Polemizzare contro l’Euro è quindi il classico effetto di chi guarda il dito e non la luna.
E le riforme del mercato del lavoro in fase di approvazione o già in azione danno sempre, lo sanno tutti gli economisti, deboli segnali di crescita del PIL.
E, oltre alla povertà relativa, c’è quella assoluta: il 7,9% delle famiglie sono sotto il livello della povertà assoluta, ovvero il limite della sussistenza “secondo gli standard medi”.

Una famiglia su cinque è povera e, in numeri, si tratta di 10 milioni e 48mila persone in povertà relativa e di 6milioni e 20mila persone in povertà assoluta. Domanda: come si fa a “rilanciare i consumi” in una situazione come questa? E’ davvero realistico immaginare una politica vetero-keynesiana in un contesto demografico del genere?
E la Coldiretti ci conferma che aumentano del 150% i poveri assoluti in Italia.

E c’è di più: come hanno ormai dimostrato le recenti esperienze di spesa pubblica espansiva in fase di stabilità fiscale EU, tanto maggiore è la “dose” dell’intervento dello Stato tanto minore è il suo effetto antirecessivo.
Ma non c’è nemmeno da immaginare una qualche spesa pubblica per risolvere la sempre più grave povertà, segno evidente che l’Italia ha perso la guerra geoeconomica della globalizzazione.

Il debito delle amministrazioni pubbliche è aumentato fino a 2166 miliardi di Euro e quindi, se siamo ottimisti come il Governo, il rapporto debito/PIL sarà almeno del 137,9%.
Il fabbisogno statale fino a Maggio scorso però era di 48,2 miliardi di Euro, mentre il Tesoro ha emesso maggior debito pubblico di quello rimborsato per 96,6 miliardi.

Quindi, razionalmente, il Tesoro si aspetta una fase di aumento dei tassi sull’Euro e una permanenza della fiducia globale sulla moneta europea, ma dove sono le politiche sociali per modificare il quadro di una Italia da ricostruzione anni ’50 che abbiamo delineato?
Il PIL si è contratto dell’1,9%.

Nel solo 2013 si sono persi 500.000 posti di lavoro. Le esportazioni contribuiscono di uno 0,8% alla crescita economica (ecco perché uno Paese export oriented tende alla povertà di massa, come in molti BRICs), ma loro hanno regimi autoritari. Noi riusciremo a reggere la povertà di massa in un contesto pluralista? Le sang dans la rue ci aspetta.

La produzione industriale poi è diminuita del 3,2% rispetto all’anno precedente.
Bene: ogni tipo di sostegno ai redditi minimi in questo contesto è o una partita di giro o una operazione inflazionistica che, in un contesto di moneta unica, peggiora le nostre partite correnti.
E Mario Draghi lo ha recentemente riaffermato, non si esce dai parametri UE.
“Creare lavoro” non vuol dire niente. Il lavoro non si crea e non si distrugge, come l’energia. E quello perso non lo si ritrova più.

Come fare, allora? A mali estremi estremi rimedi. Un “esercito del lavoro” come quello prospettato dal liberale Ernesto Rossi, nel suo attualissimo “Abolire la miseria”. (1945, dopo un’altra guerra perduta) ripubblicato nel 1977 e nel 2002.
Creare un Esercito del Lavoro, una sorta di servizio militare di pace da destinare alla produzione di beni di consumo primari. Quelli che mancano ai poveri vecchi e nuovi.

Pagato in beni primari anch’esso: vitto e alloggio, vestiario-base, per evitare il passaggio naturalmente inflazionistico alla moneta.
L’idea, che potrebbe sembrare comunista, si ritrova anche in un liberista radicale come Von Hayek, sotto forma di “minimo uniforme di reddito garantito”. Un esercito dei poveri, che magari con esso riusciranno ad andare in Cielo, come in Miracolo a Milano di Vittorio De Sica.

Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa

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