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Gela, perché la riconversione dell’Eni di Descalzi è cosa buona e giusta

Che cosa sta succedendo a Gela? L’impianto di raffinazione Eni è al centro dell’attenzione. Da un lato i sindacati protestano, temendo che il Cane a sei zampe chiuda lo stabilimento che, tra diretto e indotto, dà lavoro a circa 3mila persone. Dall’altro il gruppo ora capitanato dall’ad, Claudio Descalzi, nega di voler abbandonare la Sicilia, esclude di voler licenziare e, anzi, rilancia con un piano di riconversione da oltre 2 miliardi di investimenti.

I PROGETTI DI RICONVERSIONE

Il piano su Gela è stato spiegato al Sole 24 Ore da Salvatore Sardo, Chief Downstream & Industrial Operations Officer di Eni: “Non si parla di chiusura ma di riconversione; non licenzieremo nessuno dei nostri 970 dipendenti. Dirò di più: siamo disponibili a incrementare gli investimenti dai 700 milioni previsti a oltre 2 miliardi, in un progetto ampio che potrebbe coinvolgere altri settori, ad esempio l’esplorazione di idrocarburi, la raffinazione verde, e anche un centro mondiale di formazione manageriale sulle tematiche di salute, sicurezza e ambiente”.

L’ANNUNCIO DI DESCALZI

Ieri, nel corso della missione in Africa anche con il premier Matteo Renzi, il capo azienda Descalzi ha aggiunto: “Non abbiamo intenzione di accedere agli ammortizzatori sociali né di chiedere contributi al governo. Dobbiamo trovare una nuova strada perché la raffinazione non ha futuro non solo in Italia ma anche in Europa. Dal 2009, abbiamo investito nel reparto della raffinazione 2,9 miliardi ma abbiamo avuto perdite in Italia di 5,9, bisogna trovare un’altra strada”.

LE RAGIONI ECONOMICHE

Ma perché per l’Eni l’attuale impianto di Gela non può avere un futuro? Sono i numeri a dimostrarlo, secondo il gruppo ora presieduto da Emma Marcegaglia. Il surplus di capacità nel Mediterraneo e il crollo dei consumi petroliferi, acuito dalla crisi economica, hanno assunto dimensioni tali da rendere di fatto strutturale la tendenza negativa della raffinazione, sottolineano gli addetti ai lavori.

IL CROLLO DEI MARGINI

In particolare, a partire dal 2009, i margini di raffinazione hanno subito una drastica riduzione e a ciò si è accompagnata l’escalation delle quotazioni del greggio e del prezzo dell’energia, con rilevanti impatti sui costi variabili di produzione.

LA RIDUZIONE DEI CONSUMI

Dal 2006 i consumi petroliferi europei si sono ridotti del 15% (in Italia -30%) come conseguenza della crisi economica, della crescente efficienza energetica e delle normative ambientali (biocarburanti), portando la domanda in Europa indietro di 40 anni.

LO SCENARIO EUROPEO

L’industria della raffinazione europea continua ad essere in overcapacity: a fronte di una domanda di prodotti petroliferi di 700 milioni di tonnellate, la capacità di raffinazione è pari a 820 milioni di tonnellate, con un surplus di 120 milioni di tonnellate, equivalente a 1,4 volte la capacità di raffinazione italiana.

I NUMERI DEGLI IMPIANTI IN EUROPA

Nell’ultimo quinquennio sono state chiuse 17 raffinerie in Europa, per una capacità di 90 milioni di tonnnellate. La Francia è il paese che ha razionalizzato in misura maggiore (-30 milioni di tonnellate, pari a un terzo della propria capacità ante-crisi).

CHE COSA SUCCEDE IN ITALIA

In Italia la crisi ha portato alla chiusura di 4 siti (Cremona nel 2011, Roma nel 2012, Mantova e Venezia nel 2013) e l’uscita dalla produzione di circa il 13% del potenziale italiano. Il crollo dei consumi italiani (-30% dal 2006, il doppio della media europea) ha tuttavia reso vana la razionalizzazione e ha portato i tassi di utilizzo medi dal 85-80% al 65-70%.

GLI SVANTAGGI ITALIANI

L’Italia presenta ulteriori fattori di svantaggio competitivo sia nei confronti dei concorrenti extra UE, sia dei principali competitors europei. In particolare:

– il costo del greggio nell’area del Mediterraneo è strutturalmente più elevato per la maggiore influenza di fattori geopolitici (conflitti/tensioni dei maggiori fornitori dell’area – Libia, Egitto, Iraq, Siria)

– il costo dell’energia, già fra i più elevati in Europa, è di gran lunga superiore a quello dei raffinatori extra UE (come le raffinerie del Medio Oriente con accesso al gas a bocca di pozzo e quelle USA che beneficiano delle produzioni di shale gas locale).

LA CONCORRENZA EXTRA EUROPEA

Inoltre le produzioni italiane subiscono la pressione concorrenziale dei paesi extra UE anche in relazione ai minori costi fissi di esercizio indotti da legislazioni e vincoli tecnico-ambientali meno stringenti, al costo della manodopera ed oneri sociali molto inferiori a quelli europei e, in taluni casi, ad incentivi fiscali pro-esportazione (es. i produttori russi beneficiano di forti incentivi all’export di diesel).

La conclusione di un addetto ai lavori è la seguente: “Gli svantaggi delle produzioni italiane rispetto a quelle extra-europee sono strutturali e difficilmente reversibili, mettendo a repentaglio tutte le raffinerie italiane, anche quelle più moderne ed efficienti”.

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