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Vi spiego l’accordo sull’Eni di Gela. Parla Pirani (Uil)

Un po’ a sorpresa dopo la rottura delle trattative consumata nei giorni scorsi, oggi l’Eni e i sindacati hanno raggiunto un accordo sulla raffineria di Gela durante il tavolo convocato al ministero dello Sviluppo economico retto da Federico Guidi.

Ecco i dettagli dell’intesa, le ragioni del dietro-front e un giudizio sui progetti del nuovo ad del gruppo, Claudio Descalzi, in una conversazione di Formiche.net con Paolo Pirani, segretario confederale della Uil.

Pirani, oggi le organizzazioni sindacali e l’Eni hanno trovato un accordo sulla raffineria di Gela. Che cosa è cambiato rispetto a qualche giorno fa?

Qualche giorno fa eravamo in presenza di una disdetta degli accordi da parte di Eni. L’azienda voleva ritirare l’accordo precedente e discutere la presentazione di un nuovo piano basato in gran parte su progetti di estrazione offshore interessanti, ma futuribili. Noi abbiamo chiesto che si tenesse fede alle vecchie intese, senza le quali lo stabilimento sarebbe fermo.

In cosa consiste nei dettagli la rinnovata intesa?

Si riconosce la validità degli accordi sottoscritti nel 2013 e nel 2014 relativamente ai siti di Gela e Porto Marghera. Eni si è impegnata ad avviare il processo di manutenzione e deve garantire la conservazione degli impianti e il ripristino dell’efficienza operativa della linea 1, anche attraverso il coinvolgimento dell’indotto. Le parti sono d’accordo per iniziare ora un nuovo confronto sulla politica del gruppo per arrivare a un nuovo accordo sulle prospettive industriali di Eni. Il prossimo incontro si terrà tenere entro il prossimo 15 settembre, sempre al ministero dello Sviluppo economico.

L’azienda ha fatto un passo indietro?​

Io parlerei piuttosto di un ripristino delle relazioni su un piano bilaterale per quanto riguarda tutto il gruppo e della rinuncia a scelte prese unilateralmente.

Cosa vi convince e cosa no della strategia di Eni del nuovo ad Claudio Descalzi?

A Descalzi stiamo ancora “prendendo le misure”, come si suol dire. È alla guida dell’azienda ancora da troppo poco. Tuttavia c’è un punto che a noi preoccupa. La riorganizzazione dell’Eni mette tutte le attività industriali in un unico contenitore. C’è il rischio che si trasformi in una trade company che vende prodotti ovunque e allo stesso tempo diminuisce la presenza industriale in italia. Secondo noi invece deve rinnovarsi e ristrutturarsi, certo, ma mantenere in Italia le proprie attività.

I problemi del settore della raffinazione sono però tutt’altro che risolti e riguardano un po’ tutto il Continente. Come pensate di affrontarli? Avete già avviato un confronto con i vostri omologhi europei?

Come Paese industriale dobbiamo mantenere una capacità di raffinazione autonoma. Abbiamo già chiuso tre raffinerie in pochi anni. Nessun Paese industriale avanzato non ha al suo interno una quota rilevante di chimica e raffinazione. È una questione sicurezza nazionale ed energetica. Detto ciò l’Europa può accompagnare un processo di ristrutturazione sana, aiutando le aziende – anche attraverso un sistema di incentivi – a rendere più efficienti gli impianti e a investire nella riconversione alla bioraffinazione, ovvero il futuro.

Cosa può fare invece l’Italia?

L’Italia dovrebbe accompagnare le attività di raffinazione a quelle estrattive. Abbiamo troppi giacimenti non sfruttati per veti e blocchi pregiudiziali ormai privi di senso. Esistono tutte le tecnologie adatte per estrarre petrolio senza incidere troppo sull’ambiente. Le altre nazioni lo dimostrano. E io credo che Eni debba continuare a fare ricerca e investimenti per essere uno di quei grandi player nazionali e internazionali fulcro della ripresa economica del Paese.

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