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Eni, vi spiego perché a Gela la raffinazione ha fatto splash. Parla Alberto Clò

La riconversione di Gela, il ritardo dei sindacati, l’immobilismo dell’Europa e il ruolo dell’Italia nel semestre per tamponare la crisi del settore continentale della raffinazione.

Ecco i temi affrontati in una conversazione con Formiche.net da Alberto Clò, uno dei massimi economisti esperti di energia, già ministro dell’Industria ed ex consigliere di amministrazione dell’Eni, oggi supervisor del Rie (Ricerche industriali ed energetiche) e direttore responsabile della rivista Energia.

Professore, perché i sindacati stanno protestando contro il piano di Eni per Gela?

Perché c’è scarsa consapevolezza di quella che era una morte annunciata e che andava affrontata per tempo.

È giusta la strategia di Eni? E considera sostenibile il suo piano di riconversione?

Nelle intenzioni di Eni c’è l’ipotesi di trasformare Gela in un polo di chimica verde. Un piano di non facile attuazione, ma nemmeno da scartare. Credo che la mossa del Cane a Sei zampe abbia in realtà un altro pregio, quello di aver messo sul tavolo un problema che non è solo italiano e che riguarda la crisi europea del settore della raffinazione.

A cosa è dovuta la crisi del settore in Europa?

Sicuramente non alle aziende come Eni, che negli scorsi anni hanno fatto investimenti massicci per venire incontro alle richieste sempre più forti di una riduzione dell’impatto ambientale degli impianti di raffinazione. Se bisogna identificare un responsabile, questa è la totale assenza dell’Unione europea, assolutamente silente di fronte a questo dramma industriale. Già nel 2010 si denunciavano queste criticità. Il settore ha perso miliardi nel Vecchio Continente, schiacciato dal crollo dei consumi conseguente alla crisi del 2008, dal crollo dei margini negativi, dalla sovra capacità produttiva, e dall’obbligo per le imprese di realizzare grossi investimenti nei prossimi anni per venire incontro alle nuove normative europee.

Quali sono i rischi a cui si va incontro?

Il più evidente è ovviamente quello industriale. Dovremo importare non solo petrolio, ma anche prodotti petroliferi con tutto ciò che questo comporta. Poi c’è la componente sociale. L’economia europea è esposta ancora ai venti della crisi e quella italiana in particolare. Nei prossimi anni potremmo assistere addirittura a un dimezzamento dei volumi di raffinazione attuali. Già ora metà delle aziende è fuori mercato. L’impatto derivante dalla loro chiusura potrebbe essere catastrofico dal punto di vista occupazionale. Ma quando si parla di energia, le ripercussioni sono inevitabili anche nel settore della sicurezza nazionale. Da chi compreremo i prodotti? E a che prezzo, non solo economico?

Cosa potrebbe fare l’Europa?

Innanzitutto tirare fuori la testa dalla sabbia. Non si possono continuare a chiedere alle aziende sacrifici con soldi che non hanno e continuare a finanziare le rinnovabili o a redigere studi sulla decarbonizzazione, illudendosi che il futuro a medio termine sia senza idrocarburi. Sarebbe piuttosto il momento che Bruxelles coordinasse una ristrutturazione assistita del settore, anche attraverso un sostegno economico. La crisi degli anni ’70 fu peggiore di quella di oggi, eppure le aziende ne uscirono rafforzate, grazie al lavoro dell’Europa. Oggi invece non si fa nulla, mentre il settore precipita a fondo.

L’Italia che ruolo può avere in questa ristrutturazione?

L’Italia dovrebbe dare il proprio contributo ponendo il problema durante il semestre, chiedendo una risposta comunitaria prima che sia troppo tardi.

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