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Chi ama Taranto non vuole la rottamazione dell’Ilva

La forte manifestazione on the road organizzata dalla Confindustria di Taranto il 1° agosto – cui hanno partecipato 2.000 fra imprenditori e loro dipendenti con centinaia di automezzi da lavoro portati in piazza per testimoniare le gravi difficoltà di tutto l’indotto Ilva, Eni, Cementir e dell’Arsenale – è stato un segnale di gravissimo allarme non più ignorabile da Governo e Istituzioni locali: e non è solo e soprattutto la pesante situazione debitoria dell’Ilva che determina preoccupazioni ormai ai limiti dell’incontrollabilità in città e in Italia, ma anche il sistematico e irriducibile, estremismo ambientalista che ha trovato durissima ed esplicita opposizione, anche se del tutto composta, da parte dei manifestanti confindustriali.

Chi ha svolto lavori per l’Ilva, ma non incassa il maturato per pagare salari e stipendi ai propri dipendenti; chi temesse di non lavorare per il progetto Tempa Rossa, che pure assegnerebbe le commesse in logiche di mercato; chi infine avesse preoccupazione per il futuro della propria azienda ha ormai deciso di scendere in piazza (e di rimanerci a lungo) sin quando la ingarbugliata matassa dell’industria locale non incomincerà a sbrogliarsi in una logica di ecosostenibilità, ma anche di crescita e di sviluppo.

Il corteo, conclusosi con la consegna da parte del Presidente della Confindustria ionica Vincenzo Cesareo al Prefetto di un documento di proposte da inoltrare al Governo, di tanto in tanto è stato aggredito (per fortuna solo verbalmente) da una cinquantina di ambientalisti che chiedono ormai da tempo la chiusura dell’Ilva, e non solo della sua area a caldo, dichiarando peraltro il loro no perentorio al progetto Tempa Rossa e ad altri investimenti previsti in città ritenuti inquinanti.

Il giorno prima era scomparso il piccolo Lorenzo Zaratta, un bimbo di 5 anni colpito da un tumore al cervello all’età di tre mesi che si è spento fra lo strazio dei suoi genitori, dell’intera cittadinanza – nessuno escluso – e di tutti noi che eravamo informati della sua grave malattia. Il padre due anni orsono aveva dichiarato in una manifestazione che, pur non essendovi alcuna certezza scientifica di un nesso fra l’inquinamento generato dall’Ilva e la patologia della sua creatura, aveva affermato tuttavia di temerlo, esprimendo l’auspicio pienamente condivisibile che in città i bambini (e gli adulti) potessero vivere senza la minaccia di patologie da emissioni nocive. La scomparsa del bimbo, com’era prevedibile, ha radicalizzato ancor più le posizioni di coloro che insistono nell’affermare – sulla scorta anche delle risultanze dello studio Sentieri dell’Istituto superiore di sanità – che, essendovi maggiori probabilità di contrarre patologie da inquinamento a Taranto rispetto ad altre zone, bisogna eliminarne radicalmente le cause dismettendo le fabbriche nocive.

Ora, la morte di un bimbo di soli 5 anni è un evento straziante che associa nel lutto ogni genitore e che deve contribuire a rilanciare con forza (e subito) il grande impegno finanziario, tecnologico, scientifico e gestionale contro le emissioni nocive non solo dello stabilimento siderurgico, ma degli altri impianti industriali esistenti a Taranto: e sotto questo profilo, purtroppo, i ritardi si sono accumulati, generando sfiducia anche in chi aveva creduto alla possibilità di far convivere industria, lavoro, ambiente e salute.

Questo è il punto dirimente, non ci stancheremo di ripeterlo, richiamandoci anche alla sentenza della Consulta che aveva dichiarato lo scorso anno costituzionale la legge 231/2012, consentendo la prosecuzione dell’esercizio del Siderurgico classificato come “impianto di interesse strategico nazionale”, la cui area a caldo era stata invece posta sotto sequestro senza facoltà d’uso dalla Gip di Taranto il 26 luglio del 2012.

Ma è bene anche sapere che chiedere la dismissione coatta dell’Ilva non inciderebbe soltanto (e drammaticamente) sui livelli occupazionali della città e della sua provincia – con un abbattimento pesantissimo del reddito pro capite e senza avere prospettive certe a breve di rioccupazione degli 11.514 addetti diretti dello stabilimento e degli oltre 6.000 occupati nel suo indotto di primo livello – ma determinerebbe gravi effetti sulle stesse condizioni psicofisiche dei suoi dipendenti, generando in loro stati ansiogeni forse incontrollabili da disoccupazione improvvisa, privazioni materiali per le rispettive famiglie molto pesanti, patologie di varia natura per gravissime carenze di quanto strettamente necessario all’esistenza quotidiana, con l’abbandono probabilmente inevitabile di un numero crescente di ex operai alle spirali dell’usura che a Taranto è stata storicamente fiorente.

Allora, non ci sono alternative: bisogna accelerare tutti i provvedimenti, i progetti, gli interventi e le misure previste sotto il profilo progettuale, ma non ancora realizzate per carenza di fondi, finalizzate alla radicale bonifica del Siderurgico, continuando ad assicurarne l’esercizio, contenendone prima ed abbattendone poi al massimo l’impatto sull’ecosistema e sulla salute di operai, tecnici, quadri, dirigenti e cittadini.

Non ci sono, lo ripetiamo, strade alternative, ma solo improbabili scorciatoie propagandistiche proposte forse anche in buona fede da chi le avanza. La sfida per coniugare lavoro, ambiente e salute è una sfida epocale. Altrove è stata vinta e deve esserlo anche a Taranto. A questo ci sprona e ci incoraggia la scomparsa del piccolo Lorenzo. Questo è l’impegno che tutti devono assumere dinanzi alla sua piccola bara bianca. Dal Presidente Renzi al Commissario dell’Ilva Gnudi, dal Sindaco di Taranto al Presidente della Confindustria locale Cesareo con i suoi iscritti.

Federico Pirro – Università di Bari – Centro Studi Confindustria Puglia

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