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China State Grid in Cdp Reti, perché la Cina è troppo vicina

Grazie all’autorizzazione dell’autore, pubblichiamo il commento di Gionata Picchio uscito su Staffetta Quotidiana

A leggere i maggiori quotidiani l’accordo sull’acquisto del 35% di Cdp Reti da parte della cinese State Grid sembra un fatto come tanti. Eppure si tratta dell’ingresso nelle maggiori reti energetiche italiane di un colosso a capitale pubblico, di un Paese da un quasi 1,4 miliardi di abitanti.

L’Italia di Renzi ha fatto un buon affare, facendo cassa senza perdere il controllo e aprendosi preziose prospettive di partnership con il gigante asiatico? O ha commesso un errore facendo entrare lo Stato cinese in asset strategici senza considerare (né discutere) tutte le possibili conseguenze?

I pro dell’operazione sono stati illustrati nelle ultime ore dal presidente di Cdp Bassanini (nella foto), che l’ha condotta insieme al premier Renzi e al ministro dell’Economia Padoan: la Cassa ha valorizzato la quota a premio rispetto ai valori di borsa degli ultimi mesi di Snam e Terna, il tutto senza perdere il controllo. Una condizione, fin dall’inizio non negoziabile, che sicuramente non invoglia i pretendenti né fa crescere le offerte.

Oltre ai 2,1 miliardi da incassare, poi, ci sono le opportunità offerte dal rafforzamento della partnership con la Cina. Un avvicinamento che solo nell’ultimo anno ha visto Pechino crescere in Enel e Eni, affiancarsi al Cane a sei zampe in Mozambico, entrare in Ansaldo Energia – guadagnando accesso a risorse e competenze tecnologiche in settori in cui è ancora arretrata. Ma a ciò possono corrispondere anche spazi per l’Italia nel vasto mercato cinese – vedi gli accordi su Ansaldo – in una fase in cui la maturità delle economie Ue impone di guardare fuori per sopravvivere.

Tutto bene, quindi? Sì e no. Resta legittimo infatti domandarsi se nell’azione del governo non abbiano prevalso il desiderio di fare cassa alle condizioni volute e di rafforzare i rapporti con la Cina senza valutarne fino in fondo le implicazioni, a partire da quelle di fare entrare i rappresentanti di uno stato sovrano – e non uno qualunque ma di un gigante come l’ex Impero Celeste – nel capitale delle reti nazionali.

Stupisce che, a dispetto degli strepiti che si alzano ogni volta che un soggetto estero si affaccia su un asset italiano – appena poche settimane fa addirittura il Copasir lanciava l’allarme sugli spagnoli in Telecom – questa volta perfino i sindacati di fatto abbiano avuto poco o nulla da dire. E l’unica voce davvero critica sia in questi giorni quella del quotidiano online formiche.net che sulle ombre della vicenda ha invece costruito un vero dossier.

Quantomeno è lecito chiedere quali siano nel dettaglio le contropartite per le imprese italiane di quest’ultima operazione – la definizione di specifiche iniziative, ha spiegato lo stesso Bassanini, comincia solo ora. E perché il governo non sembri considerare in alcun modo problematico (né meritevole di una discussione pubblica) l’ingresso di funzionari della più grande e potente burocrazia del mondo nei Cda di Snam e Terna.

Certo va ricordato che la “xenofobia” economica è un tratto deteriore della cultura nazionale. E se fino a ieri si criticava Tremonti per la demonizzazione della Cina, fare lo stesso oggi diventa poco credibile. Nel contempo però non si può ignorare la complessità e l’enormità di alcune delle poste in gioco. Tra cui la volontà della Cina di smarcarsi dall’angolo in cui gli Usa vogliono metterla con gli accordi di libero scambio in Europa e Asia. Dinamiche in cui l’Italia rischia di restare schiacciata.

Renzi ha tenuto conto di tutto questo o ha privilegiato l’opportunità di fare un bell’incasso e mostrare alle telecamere che lavora per l’Italia all’estero? E quale parte d’Italia poi? In prima fila sembrano esserci sempre e solo le imprese pubbliche. Il cognome del premier e il vocabolo cinese per “ostaggio” (rén zhì) si scrivono quasi allo stesso modo. C’è da sperare che a Pechino nessuno si sia fatto idee sbagliate.

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