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Perché l’Occidente non deve snobbare quanto succede in Turchia con Erdogan

Domenica si avranno per la prima volta le votazioni per l’elezione diretta del Presidente della Repubblica in Turchia. Tutto fa presagire una vittoria dell’attuale premier (peraltro ancora in carica, nonostante sia candidato alla presidenza) Recep Tayyip Erdogan, e tutto fa pensare che la sua vittoria porterà ad un’accelerazione della svolta autoritaria a cui si assiste nel paese in questi anni.

Perché l’Occidente dovrebbe essere molto più attento, o forse sarebbe meglio dire preoccupato, di quanto non sia rispetto a quello che sta avvenendo in Turchia? Perché la Turchia non dovrebbe essere considerata alla stregua degli altri paesi islamici che vivono il loro rapporto di (pochi) alti e (molti) bassi con la democrazia?

La Turchia è uno dei pochissimi paesi islamici nel quale non solo l’economia reale (non legata alla vendita di risorse energetiche) è cresciuta in maniera considerevole, ma anche nel quale sembrava che la democrazia si fosse consolidata e fosse in grado di funzionare. Grazie alla rivoluzione laica e nazionalista di Mustafa Kemal Ataturk, il padre della Turchia repubblicana, si affermo nel 1923 la  distinzione tra stato e religione, distinzione che ha tenuto, non senza problemi per la democrazia, come noto legati anche al ruolo forte dei militari, guardiani della laicità dello stato, sino ad oggi. Le istituzioni laiche della Repubblica sono riuscite a far convivere in maniera tutto sommato pacifica mussulmani sunniti, aleviti, curdi (in questo caso con non pochi problemi legati alle aspirazioni di creare uno stato autonomo), ebrei, atei e altre confessioni minoritarie, non ultima quella cristiana.

Dieci anni fa è andato per la prima volta (a parte una parentesi negli anni Cinquanta interrotta dai militari) al potere un partito di ispirazione islamica, islamico moderata, l’AKP, Partito della Giustizia e dello Sviluppo, co-fondato da Erdogan. Era la grande scommessa di un partito di ispirazione islamica alla guida di una democrazia che sembrava essersi consolidata nelle sue strutture (prima fra tutte la divisione dei poteri), in una società diversificata nella quale si era sviluppata una consistente borghesia,  istruita e capace di produrre una classe dirigente e una burocrazia moderna. Per i primi anni è sembrato che la scommessa dovesse avere successo. Erdogan ha ottenuto innegabili successi di politica economica, stabilizzando la moneta, riducendo l’inflazione, guidando il paese, anche nelle zone interne dell’Anatolia (suo grande bacino di voti), storicamente molto arretrate, verso una crescita economica invidiabile. E i suoi tentativi di far accogliere la Turchia tra i membri dell’Unione Europea gli fecero guadagnare l’appoggio di molti intellettuali liberali.

Queste elezioni tuttavia sanciscono definitivamente il fatto che qualcosa sta cambiando. Accanto alle scelte economiche azzeccate Erdogan ha avviato da alcuni anni un processo lento ma continuo di logoramento delle istituzioni laiche e democratiche, il quale forse non è ancora emerso in tutta la sua gravità. E spesso lo ha fatto usando l’arma della propaganda a favore della democrazia. Ha spogliato i militari del loro prestigio e ha gradualmente inserito, in quello che era il baluardo della laicità dello stato, i suoi uomini; anche nelle scuole, nelle università, nella burocrazia statale l’elemento religioso pesa ora sempre di più, facendo emergere divisioni che sembravano essere state superate (con la parziale eccezione dei curdi) in ragione dell’appartenenza alla stessa nazione.

La rivola di Gezi Park, iniziata come protesta ambientalista, si è presto trasformata nella rivolta di quella metà di Turchia democratica che ha capito che il premier stava andando troppo in là. La dura repressione, apertamente voluta da Erdogan, ha fatto realizzare a molti la volontà del premier di considerare illegittima qualunque forma di dissenso e lo slittamento di fatto verso uno stato di polizia, che ha anche portato la Turchia ad avere più giornalisti in prigione della Cina. Una chiave per comprendere ciò che veramente sta accadendo è anche in quello che è successo, pochi mesi fa, a seguito del gigantesco scandalo della corruzione. Una operazione condotta in gran segreto da parte di alcuni pubblici ministeri e capi della polizia, ha portato alla custodia cautelare i figli di alcuni ministri e alla diffusione di intercettazioni che mostrano il chiaro coinvolgimento del premier e di suo figlio. La conseguenza è stata la rimozione o l’arresto di chi aveva condotto quelle indagini. Si trattava con ogni probabilità di persone legate a Fethullah Gulen, ex alleato di Erdogan, e questo ha dato la stura alla caccia di tutti quelli che sono stati definiti gli appartenenti allo stato parallelo, con Erdogan che ha tuonato, dopo la vittoria alle elezioni amministrative, che era tempo di scovare nelle loro tane tutti i nemici della Turchia, concetto ribadito in questi giorni.

Al di là della complessa valutazione della figura di Gulen, a lungo sodale di Erdogan nel proporre e attuare politiche religiose, è evidente come in Turchia esistano ancora parti di istituzioni che si oppongono alla deriva dittatoriale del sistema. C’è un pezzo del sistema giudiziario, della corte costituzionale, degli organi di informazione che ancora resiste, e che il premier da anni lentamente logora, ora in maniera sempre meno nascosta e con minacce sempre più esplicite. Erdogan non è ancora riuscito a cambiare in maniera consistente le istituzioni formali turche e non ha ancora incrinato del tutto quel bilanciamento tra poteri che è la salvaguardia della democrazia. È riuscito ad ottenere l’elezione diretta del presidente della repubblica, ma non il cambiamento formale della sua funzione, decisamente più vicina (anche per prassi e interpretazione di chi la esercitata sino ad ora) a quella del presidente italiano che non a un capo dell’esecutivo. Ma si è candidato dichiarando che non sarà, se eletto, un presidente come gli altri, e che la Turchia ha bisogno di un sistema presidenziale forte. Nella campagna elettorale, visibilmente sproporzionata a suo favore nei mezzi di informazione e nella quale è evidentemente in grado di usare fondi pubblici come leader del governo, Erdogan chiede un ampio consenso proprio per un cambiamento formale del sistema in questa direzione. La sua vittoria appare scontata, ma come si arriverà a questa vittoria appare molto importante.

Il sistema elettorale prevede che sia eletto al primo turno solo il candidato che prende la maggioranza assoluta dei voti, in caso contrario si andrebbe al ballottaggio. I candidati sono tre, con i due dell’opposizione che appaiono molto staccati da Erdogan, ma con una reale incognita su quale sia la loro effettiva capacità di attrarre consenso.   Se Erdogan non dovesse vincere al primo turno le sue pretese verrebbero forse ridimensionate, o almeno la lotta per realizzare i cambiamenti che ha in mente sarebbe inevitabilmente più dura. Sarà poi importante vedere cosa succederà fra un anno con l’elezione del nuovo parlamento, che avrà il compito di approvare le riforme proposte dal nuovo presidente, e quali saranno le dinamiche all’interno dell’AKP. In particolare  molto si giocherà nella scelta del nuovo premier, il mese prossimo, con Erdogan presidente. Se dovesse spuntarla Abdullah Gul, attuale presidente della repubblica e co-fondatore dell’AKP, apparentemente dotato di una certa autonomia e più sensibile su temi quali il rispetto delle minoranze, l’autonomia del potere giudiziario, la libertà di informazione, e ultimamente spesso in disaccordo con il premier, forse Erdogan incontrerà dei limiti sulla sua strada, anche se va detto che nel suo ruolo di presidente Gul, pur talvolta dissentendo, ha sempre approvato tutte le decisioni del premier. Se invece il futuro premier dovesse essere l’attuale ministro degli esteri, Ahmet Davutoglu, fedelissimo di Erdogan, le prospettive sarebbero decisamente molto fosche.

Ma molto dipenderà anche da quello che sapranno fare non solo i partiti di opposizione, al momento deboli e privi di leadership credibili, ma le minoranze nelle piazze e nella vita di tutti i giorni. Insomma cosa saprà fare quella metà di Turchia democratica per fermare la deriva autoritaria. La vera essenza della democrazia non è il governo della maggioranza (che è sempre il governo di poche persone che prendono la maggioranza dei voti) ma il rispetto delle minoranze, e forse oggi si deve guardare con più attenzione alla capacità delle minoranze di non farsi opprimere e poter aspirare ad essere maggioranza domani.

Se la democrazia perderà la sua battaglia (anche) in Turchia, con tutto quello che questo comporterà per la geopolitica in Medioriente, avrà anche perso uno dei suoi principali tasselli per sperare di potersi affermare anche in aree del mondo che non siano l’Europa occidentale o gli Stati Uniti. Se l’Occidente non capirà, e per ora non da grandi segni di comprendere, l’importanza della battaglia in Turchia, dovrà forse rassegnarsi all’idea di dover avere a che fare con regioni del mondo nelle quali esistono forme politiche non democratiche, o solo parzialmente democratiche, e forse i suoi valori avranno perso per lungo tempo la capacità di essere un’attrattiva e un modello per vaste aree del pianeta.

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