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Riforma della scuola. Ciascuno faccia la sua parte.

La riforma della scuola annunciata, e in parte anticipata dal ministro Giannini sarà un banco di prova importante per capire se il passo di questo governo, per dirla con De Gasperi, è quello di uno statista che pensa alle generazioni future, o di un politico che invece pensa solo alle prossime elezioni. Va detto subito che ciò che è emerso sino ad ora, in attesa di conoscere i dettagli che usciranno dal consiglio dei ministri di venerdì prossimo, lascia ben sperare. E c’è da augurare che anche solo la metà delle cose che si sono lette possano divenire realtà. Il problema, semmai, è capire come, cioè con quali risorse e mezzi, e in che tempi. Ma intanto le premesse per fare un buon lavoro ci sono. A partire, ovviamente, dal capitolo più importante, ovvero la meritocrazia. E’ dai tempi del sessantotto e dintorni che nella scuola italiana, a tutti i livelli, regna sovrano il più assoluto immobilismo dovuto ad una scellerata politica, complice il conservatorismo dei sindacati unicamente protesi alla mera tutela dello status quo (leggasi:tessere), che ha legato a doppio filo l’avanzamento all’anzianità. Col risultato che la scuola è l’unica realtà lavorativa dove uno esce a fine carriera con lo stesso grado di soldato semplice di quando era entrato. E questo in totale dispregio non solo dei più elementari principi di crescita professionale, ma anche del semplice buon senso che vuole (vorrebbe) che i più bravi vengano promossi e guadagnino di più a discapito dei meno bravi. Ma nella scuola non funziona così: ottenuta l’abilitazione e vinto il concorso, fine della storia. Tutti uguali, tutti sullo stesso livello. Creando in tal modo un sistema che, paradossalmente, mentre vorrebbe essere egualitario è in realtà quanto di più discriminatorio ci sia perché penalizza i docenti più bravi che si vedono trattati allo steso modo, se non peggio, di chi non ha manco la metà di titoli, abilitazioni, ecc. E che non si dica, come fanno i soliti disfattisti in servizio permanente effettivo, che la classe docente italiana fa pena perché sappiamo tutti che non è vero; di insegnanti eccellenti ce ne sono, eccome, il guaio è che sono l’eccezione quando dovrebbero essere la regola. Ben venga dunque ogni riforma che introduca seriamente un principio meritocratico che possa consentire anche ai docenti di “fare carriera” e, di conseguenza, guadagnare di più. Altro capitolo importante della riforma: l’edilizia scolastica. E non parlo solo di sicurezza, che ovviamente deve essere la priorità, ma anche di estetica. Perché un conto è lavorare in un ambiente freddo, spoglio, grigio e mal arredato, altro è stare in un ambiente accogliente, pulito, dignitoso, dove la persona possa sentirsi apprezzata per quello che è, in primis una persona, appunto. E ancora, la libertà educativa per le famiglie, garantendo effettiva parità alle scuole pubbliche gestite da privati superando la falsa equazione pubblico=statale. Questo è un punto importante, che va al di là dell’aspetto economico o confessionale che sempre viene tirato in ballo. Qui il punto è molto semplice: è lo Stato ad avere l’esclusiva della formazione (non parlo volutamente di educazione perché, questa sì, compete alle famiglie e basta) dei nostri figli? O le future generazioni possono essere formate anche da altri agenti? La domanda, va da sé, non è banale, perché ciò che si insegna nelle scuole, in ogni scuola, corrisponde ad una ben precisa antropologia, ed è esattamente questa la posta in gioco, cioè che tipo di formazione si vuole dare, per avere che tipo di uomo o cittadino. C’è poi la questione della didattica. Anche qui, dalle indiscrezioni emerse pare si voglia puntare molto sulle lingue e sull’informatica fin dai primi anni di scuola. Scelta obbligata, certo, ma attenzione: prima dell’inglese e del computer si insegni ai ragazzi a parlare, a scrivere e a fare di conto come si deve, altrimenti avremo magari dei super esperti ma analfabeti o semi-robot. Fin qui i punti salienti della riforma. C’è però un tema, per così dire “a monte”, su cui tutti dovremmo riflettere. Il tema è questo: se la società non sarà in grado di restituire agli insegnanti lo status che a loro compete, e che avevano prima che l’onda lunga del sessantotto travolgesse con l’acqua sporca anche il bambino, difficilmente le riforme potranno dare i frutti che tutti auspichiamo. E qui un ruolo importante, direi decisivo, tocca alle famiglie. L’ho già scritto su questo blog neanche tanto tempo fa ma lo riscrivo di nuovo tale e quale: serve un nuovo patto tra famiglia e scuola, senza il quale non andremo da nessuna parte. E quando dico patto non intendo soltanto un mero e reciproco riconoscimento, formale e sostanziale, del valore imprescindibile dell’una e dell’altra, che pure serve. Intendo soprattutto un comune sentire, la condivisione di una rotta da seguire, fermi restando ruoli e prerogative delle due istituzioni (perché tali sono e restano, checché se ne dica). Soprattutto, serve riportare nella scuola il principio di autorità, che non vuol dire autoritarismo bensì cultura del rispetto (dei docenti, dei compagni di classe e di tutto il personale), del decoro, della disciplina. E dell’obbedienza, che è ancora una virtù con buona pace di Don Milani. E’ necessario che i ragazzi tornino ad avere ben chiaro che l’insegnante non è un pinco pallino qualsiasi, né tanto meno un amico o un confidente, ma il loro insegnante. Questo perché loro per primi avvertano l’esigenza di avere un punto di riferimento. Ha ragione Severgnini, siamo fatti così: “sentiamo d’aver bisogno di un maestro. Sempre, dovunque, a ogni età. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’incoraggiamento.” Ma per questo occorre che la famiglia per prima riscopra il ruolo dell’insegnante, e che i genitori la smettano di vedere la scuola semplicemente come un luogo dove parcheggiare temporaneamente i propri pargoli, o peggio ancora come una dispensatrice di diplomi manco fosse un diritto avere la licenza classica o scientifica o di qualsivoglia indirizzo (e lo stesso dicasi per la laurea, ovviamente). Sul punto vorrei sommessamente ricordare quanto dice la Costituzione, art.34: “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi…” Chiaro no? I capaci e i meritevoli hanno diritto, non tutti. Di lavoro da fare ce n’è tanto, ciascuno la sua parte: governo, sindacati, scuola, famiglie. Almeno stavolta giochiamo tutti per vincere.

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