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Francesco Forte: è poco saggio vendere il 5% di Eni e far entrare la Cina in Cdp Reti

Mettere sul mercato entro l’anno il 5 per cento di Enel e il 4,3 per cento di Eni detenuto dal Tesoro per un introito complessivo di circa 5 miliardi di euro. È il progetto di privatizzazioni a cui starebbe lavorando il governo per ridurre lo stock del debito pubblico, favorire la concorrenza in comparti economici strategici, attrarre investimenti produttivi.

Per capire se il piano è adeguato all’entità degli obiettivi prefissati Formiche.net ha sentito Francesco Forte, economista, già parlamentare e ministro nelle fila del Partito socialista italiano, a lungo professore di Scienza delle finanze all’Università di Torino, oggi editorialista del Foglio e del Giornale, e vicepresidente dell’Eni (1971-75).

Come giudica l’intenzione dell’esecutivo di alienare limitate quote del Tesoro in Eni ed Enel?

Non la ritengo un’azione saggia. Mettere sul mercato pezzi di due industrie molto redditizie è un’operazione di corto respiro che non cambierà nulla.

Per quale motivo?

Il progetto è errato soprattutto per Eni. Azienda che non solo produce notevoli profitti, ma che con il petrolio è parte integrante ed essenziale della politica estera. Il suo controllo costituisce un problema geo-politico prima che economico, viste le crisi che nel mondo attuale coinvolgono il Medio Oriente, il Nord Africa, la Russia. Il gettito di 2-3 miliardi di euro che lo Stato guadagnerebbe dalla vendita comporta una perdita netta di entrate correnti. Finiremmo in altre parole per mangiarci i proventi futuri. Per Enel l’iniziativa è accettabile ma del tutto marginale.

Non sarebbe meglio valorizzare le aziende strategiche prima di vendere loro pacchetti azionari?

Eni è un’industria già altamente valorizzata e con netta proiezione nel mercato globale. Enel potrebbe esserlo proprio riducendo le quote attualmente in mano pubblica. Scelta che produrrebbe una formidabile spinta al mercato.

Tali iniziative possono aggredire la montagna del debito pubblico?

No. Si tratta di operazioni per fare cassa. La riduzione strutturale della spesa pubblica e del passivo di bilancio viene da altri interventi. Azioni coraggiose in grado di rappresentare i motori dello sviluppo economico e di rimuovere l’intreccio tra politica, banche ed economia. Un legame forte e ramificato soprattutto a livello locale e che trova nel Partito democratico il perno attorno cui ruotano cooperative, assicurazioni, aziende fornitrici amiche. È un potere su cui Matteo Renzi è seduto, e a cui non può rinunciare facilmente. Allo stesso modo della Lega Nord.

Cosa è necessario fare per un risanamento permanente dei conti pubblici?

Privatizzare la giungla di aziende municipalizzate improduttive e in perdita in mano agli enti locali: multi-utility ridotte a carrozzoni clientelari preda dei partiti. È lì il fulcro della deformazione della nostra economia. Bisogna poi mettere sul mercato Ferrovie dello Stato e rete di trasporto ferroviario, allo scopo di evitare considerevoli spese pubbliche per i necessari investimenti. E vendere il 40 per cento di Poste italiane.

Quali sarebbero i benefici di lungo termine?

Un incasso notevole per l’Erario, il superamento di sacche di assistenzialismo, il miglioramento qualitativo di aziende costrette ad agire nella logica concorrenziale. Le esperienze tedesca e nordamericana hanno portato alla creazione di realtà imprenditoriali ad alta valenza tecnologica e telematica, alimentando l’afflusso di capitali rilevanti.

La cessione del 40 per cento di Poste è stata congelata…

È il riflesso di una mentalità dirigista che vuole tenere in casa le partecipazioni statali meno redditizie. Altro che mentalità liberale e anti-burocratica tanto sbandierata dal premier. La strada maestra contempla la riduzione del perimetro dello Stato nell’economia. Al contrario il ministro dell’Economia, Piercarlo Padoan, lungi dall’essere in sintonia con le prescrizioni europee, porta avanti un’ideologia di sinistra redistributiva e statalista di vecchio stile socialdemocratico. E ha finito per aumentare il prelievo fiscale sui patrimoni e i risparmi dei cittadini.

Un ingresso massiccio di gruppi stranieri vi è stato: il 35 per cento di CDP Reti è ora detenuto dal colosso pubblico cinese State Grid.

Era necessario evitare un’operazione tipica della mentalità dirigista di ex comunisti divenuti repentinamente favorevoli al mercato. Al contrario delle aziende americane, europee, giapponesi, indiane e russe, le imprese cinesi agiscono in una realtà para-comunista retta da un partito unico. Consentire loro di raggiungere una quota così elevata di un network che controlla  Snam e Terna è preoccupante. E rischia di privilegiare interessi contrastanti con i nostri, nel comparto energetico a elevata valenza geo-politica. Forse era più ragionevole uno scambio paritario con le aziende russe, che hanno più bisogno del commercio e dei prodotti italiani.

L’accordo raggiunto tra il governatore della Banca centrale europea Mario Draghi e il Presidente del Consiglio Matteo Renzi contribuirà a far uscire il nostro paese dalle secche recessive?

Più che un accordo è una condizione posta a tutti i governi dell’Euro-zona. Può essere utile a eventuali battaglie del premier a favore della crescita e della modernizzazione, specie nel suo partito percorso da spinte conservatrici. Ma Renzi non ha maturato un’idea precisa di riforme. Soprattutto in un settore nevralgico.

Quale?

Il mercato del lavoro. Anziché un contratto con tutele crescenti nel tempo valido soltanto per le nuove generazioni di occupati, è preferibile adottare il “modello spagnolo”. Nel quale i patti aziendali prevalgono su quelli nazionali e l’Articolo 18 è di fatto archiviato.

La persuade il progetto di Fondo Europeo di Redenzione per condividere e risanare i debiti sovrani tramite Euro Union Bond garantiti dal patrimonio industriale, valutario e fiscale nazionale?

Lo trovo pericolosissimo, poiché provocherebbe una perdita assoluta di sovranità. Al contrario di paesi come Portogallo e Grecia, l’Italia presenta comparti industriali di eccellenza e un patrimonio immobiliare, storico, artistico di raro valore. Ricchezze che rischiano di venire perdute a favore di gruppi stranieri. Un’operazione che ripeterebbe su grande scala la spoliazione dell’industria bio-tecnologica, chimica, farmaceutica e telefonica compiuta nel nostro paese all’inizio degli anni Novanta.

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