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Ecco perché la Bce di Draghi non è pronta a sparare il bazooka

I dati non certo confortanti sulla crescita del Pil dell’area euro nel secondo trimestre, la caduta del tasso di inflazione atteso di medio-lungo termine (ottenuto dagli inflation swap) e, infine, il discorso tenuto da Draghi al consesso di banchieri centrali di Jackson Hole poco più di una settimana fa hanno alimentato le attese di un annuncio di un piano europeo di Quantitative Easing (acquisto di titoli) già alla prossima riunione della Bce (4 settembre). I rendimenti sui titoli di Stato dell’area euro sembrano aver incorporato l’aumentata probabilità di un intervento della Banca centrale: i tassi decennali tedeschi sono scesi sotto l’1% e quelli italiani sotto il 2.4%, portandosi per la prima volta dalla metà del 2010, anche se solo per qualche punto base, sotto quelli britannici. Anche il tasso di cambio dell’euro con il dollaro sembra aver reagito positivamente al discorso di Draghi perdendo quasi l’1% dal 22 al 30 agosto (portandosi sotto 1.32).

In un suo discorso dello scorso aprile, Draghi aveva cercato di spiegare in quali circostanze sarebbero stati impiegati i diversi strumenti di politica monetaria, convenzionale e non. In altre parole, ha cercato di rendere più esplicita la cosiddetta ‘funzione di reazione’ (ossia il modello di risposta della Banca centrale ai movimenti delle variabili economiche che contribuiscono a determinare il tasso di inflazione) descrivendo alcuni degli scenari che dovrebbero determinare un intervento di politica monetaria e con quali strumenti.

Il primo scenario è quello di una restrizione indesiderata delle condizioni di politica monetaria dovuta a tensioni nei mercati monetari, che potrebbero derivare da una riduzione della liquidità nel mercato interbancario, a effetti di spillover dai mercati internazionali, in particolare dalla struttura dei tassi negli Stati Uniti, o infine a un apprezzamento del tasso di cambio dell’euro. Questo scenario dovrebbe determinare una reazione della Banca centrale con misure di tipo convenzionale. Sempre nelle parole di Draghi, una seconda circostanza che giustificherebbe un intervento della Banca centrale sarebbe l’ulteriore deterioramento dei canali di trasmissione della politica monetaria all’economia reale, in particolare per vincoli di offerta del credito bancario. In questo caso la risposta adeguata potrebbe consistere in misure volte a incentivare l’erogazione di credito attraverso l’offerta di fondi a lungo termine alle banche o un programma di acquisto di attività cartolarizzate (ABS, asset-backed securities). Infine, il terzo scenario è rappresentato da un peggioramento delle prospettive di inflazione di medio termine. Diversamente dalle altre contingenze, in questo caso non si tratterebbe di mantenere l’orientamento di politica monetaria ma di aumentare il grado di allentamento monetario perché la variazione nelle attese di lungo termine sarebbe verosimilmente il risultato di un forte indebolimento delle prospettive di crescita dell’economia. Sarebbe pertanto necessario un programma più ampio di acquisto di titoli per riportare le attese di inflazione verso l’obiettivo di medio-termine.

Possiamo allora intuire da questo schema le ragioni di quanto fatto nei mesi più recenti e quali potranno essere le prossime mosse della Bce? La riduzione di 15 punti base del tasso sulle ORP (operazioni di rifinanziamento principali) e di quello sui depositi overnight (in territorio negativo) operata a giugno sembra adeguarsi perfettamente a questo schema perché intendeva contrastare il possibile aumento dei tassi monetari determinato dalla riduzione della liquidità nel mercato interbancario che si era avuta con la graduale restituzione dei fondi ottenuti con le aste a 3 anni di fine 2011-inizio 2012 (le LTRO, Longer-term refinancing operations).

Le nuove aste a lungo termine vincolate all’erogazione di prestiti a imprese e famiglie annunciate a giugno (TLTRO, Targeted longer-term refinancing operations) rappresentano una misura adeguata al secondo scenario delineato, una strozzatura del canale di trasmissione della politica monetaria. Il programma di ABS potrebbe essere utilizzato a complemento delle aste a lungo termine per sbloccare il credito bancario,[3] che, nonostante qualche timido segnale di miglioramento nelle rilevazioni più recenti e nelle indagini sul credito, resta ancora estremamente debole, soprattutto per le piccole e medie imprese. È quindi possibile che sia annunciato in tempi brevi, se non già a settembre. L’acquisto di ABS dovrebbe favorire la ripresa dei prestiti alle piccole e medie imprese favorendo il trasferimento di una parte dei rischi di queste attività bancarie ad altre istituzioni finanziarie e investitori e quindi riducendo l’assorbimento di capitale che rappresenta uno dei vincoli principali all’erogazione del credito.

Ma ci possiamo aspettare ragionevolmente un piano più ampio di Quantitative Easing che comprenda anche titoli pubblici? Se lo schema presentato da Draghi descrive un’opinione di consenso all’interno del Consiglio direttivo, un intervento di questo tipo sarebbe giustificato da un disancoramento delle aspettative di medio-termine. Draghi ha enfatizzato, a Jackson Hole, che il tasso di inflazione di medio termine ottenuto dagli swap sull’inflazione è recentemente sceso di 15 punti base portandosi sotto il 2%. Sarà sufficiente il movimento di questa misura dell’inflazione attesa perché tutti i membri del Consiglio direttivo siano convinti che sia arrivato il tempo di azionare il ‘bazooka’? Probabilmente no e, nonostante gli sforzi di Draghi, non è chiaro a cosa dovremmo guardare per capire quando e se si saranno verificate le condizioni necessarie affinché a Francoforte si prema il grilletto.

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