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Perché l’ascesa e la caduta dell’Isis passano da Riyadh

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Dopo averlo segretamente foraggiato per guadagnare posizioni nella lotta per la supremazia politica ed economica nel Golfo Persico e nel mondo arabo, ora l’Arabia Saudita volta le spalle allo Stato islamico.

Secondo un copione tutt’altro che inusuale, recitato anche dal Qatar e dal Kuwait, i terroristi prima sostenuti – è accaduto con al-Qaeda, i taliban afghani e pakistani e, appunto, l’Isis -, diventano ora un nemico da abbattere.

Non solo a Riyadh, ma in tutti i Paesi che in Medio Oriente confinano con Iraq e Siria (in modo particolare in Giordania e Libano), monta il timore che gli spietati uomini capeggiati da Abu Bakr al-Baghdadi possano oltrepassarne i confini per invadere gli Stati vicini.

LA MURAGLIA ANTI-ISIS

La conferma arriva da un lancio della Saudi Press Agency (ripreso in Italia dal Corriere della sera), che rivela come la monarchia saudita starebbero pensando di realizzare una vera e propria muraglia per proteggersi dai terroristi, sullo stile di quella costruita da Tel Aviv per impedire incursioni provenienti dai Territori palestinesi.

Il muro per il momento è solo un modello, che contempla una doppia barriera fatta da due muri di sabbia su cui saranno installate recinzioni per centinaia di chilometri, 78 torri di sorveglianza e comunicazione, 1,4 milioni di cavi di fibra ottica, 50 telecamere, 50 stazioni radar, 3.397 soldati, 60 ufficiali supervisori, 8 posti di comando e controllo, 3 unità di pronto intervento, 32 postazioni per “interrogatori”. L’apparato ruoterà intorno a 4 grandi complessi, ognuno dei quali includerà ospedale, prigione, sede dell’intelligence, poligoni di tiro, moschee e luoghi di svago.

NEMICO ALLE PORTE

Riyhad, secondo un’inchiesta di Vocativ, fa bene ad avere paura. I terroristi dell’Isis non hanno mai nascosto la loro volontà di costituire un califfato islamico che non includa solo Iraq e Siria, ma che abbracci una porzione molto ampia di Medio Oriente, Nord Africa e Asia.

I PROGETTI DI ESPANSIONE DELL’ISIS [IMMAGINE]

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(fonte: Vocativ)

Inoltre l’Arabia Saudita inizia a temere anche i contraccolpi interni che la propagazione dell’ideologia jihadista potrebbe avere sulla monarchia, già passata indenne dai sommovimenti regionali causati dalle Primavere arabe, ma che potrebbe stavolta pagare dazio alla rivoluzione nera. L’Isis, come testimoniano fonti dei servizi sauditi, starebbe già reclutando uomini nel regno. E godrebbe anche di un discreto sostegno, come dimostrerebbe il numero e il tenore dei tweet a favore dello Stato islamico provenienti dal Paese.

DISTRIBUZIONE DI TWEET PRO-ISIS IN ARABIA SAUDITA [IMMAGINE]

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LE RESPONSABILITÀ DEL REGNO SAUDITA

Ciò, secondo gli esperti, non solleva l’Arabia Saudita dalle sue responsabilità nell’ascesa dell’Isis. Come spiega Seymour Hersh nella sua inchiesta The Red Line and The Rat Line“, pubblicata da London Review of Books, Riyadh attraverso la “rat line”, un canale di rifornimenti creato da CiaMI6 (l’intelligence britannica, ndr) e i servizi segreti turchi che partiva dalla Libia, attraversava la Turchia e giungeva nelle aree gestite dai ribelli siriani, trasferiva denaro alle forze che lottavano contro il regime dell’attuale presidente, Bashar al-Assad. Non solo: è il Guardian a riportare in un commento che anche se l’Arabia Saudita ha donato 100 milioni di dollari per il programma anti-terrorismo delle Nazioni Unite e il Gran Mufti dell’Arabia Saudita, Sheikh Abdul-Aziz Al al-Sheikh, la più alta carica religiosa del Paese, ha denunciato l’Isis come il “nemico numero uno”, i radicali salafiti in tutto il Medio Oriente ricevono sostegno ideologico e materiale dall’interno del regno. I donatori sauditi costituirebbero infatti “la fonte più significativa di finanziamenti ai gruppi terroristici sunniti in tutto il mondo”. D’altronde, si rileva da più parti, l’Arabia Saudita rimane un alleato degli Usa, ma fa un uso piuttosto spregiudicato ed egoista della diplomazia nella regione, entrando spesso in contrasto con i propri stessi partner.

UNICA SPERANZA?

Basterebbe dunque “isolare” l’Arabia Saudita per ridimensionare l’Isis? Non esattamente, anzi, lo scenario che si prospetta è esattamente opposto. Riyadh – spiegano due esperti intervenuti sul New York Times – potrebbe anzi essere l’unico Paese del Medio Oriente con il potere e l’autorità necessari per demolire lo Stato islamico. In un op-ed pubblicato martedì 9 settembre, Nawaf Obaid, un ricercatore presso il Belfer Center di Harvard per la scienza e gli affari internazionali, e Saud al-Sarhan, direttore di ricerca presso il Centro di Ricerca e Studi Islamici King Faisal, dicono che mentre l’Isis si appresta a voler conquistare il regno a causa della sua ricchezza e del significato che riveste per l’Islam, proprio queste sue caratteristiche suggeriscono che solo col suo aiuto si possa prevalere sul gruppo terroristico. “L’Arabia Saudita… ha già efficacemente debellato al-Qaeda nel regno… il governo ha esperienza nella lotta al terrorismo nonché uno dei programmi anti-terrorismo più sofisticati al mondo”. Inoltre è “la leadership saudita ha una forma unica di credibilità e legittimità religiosa, che renderà molto più efficace di altri governi la delegittimazione, nello stesso mondo sunnita, della mostruosa ideologia terroristica dello Stato islamico”. Ecco perché, concludono i due esperti, nella coalizione internazionale contro l’Isis lanciata dal vertice Nato in Galles dal segretario di Stato americano John Kerry (da oggi impegnato in un tour mediorientale per incontrare gli alleati), sarebbe sbagliato non includere Riyadh. Soprattutto se quest’ultima, come ha suggerito a Russia Today l’esperto di studi islamici Mohamed Ghilan, provasse a defilarsi per far fare il lavoro “sporco” all’Occidente.

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