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Tutti gli interrogativi sul piano anti-Isis di Obama

Mercoledì 10 settembre, Barack Obama ha pronunciato l’atteso discorso per illustrare la strategia da seguire nei confronti dello Stato Islamico (ISIS). Raramente un discorso tanto breve (13 minuti) è stato preceduto da tanti dibattiti. Ne sarà seguito da molti altri. Molti sostengono che non abbia illustrato una strategia, ma che sia stato un esercizio di relazioni pubbliche. Obama si sarebbe “arrampicato sugli specchi”, soprattutto per contrastare le critiche rivoltegli per la sua indecisione, per mascherare la poca chiarezza degli obiettivi e per giustificare gli “strani” alleati, con contrastanti interessi, con cui è costretto ad agire, ricercando difficili e inconfessabili mediazioni.

Obama era poi prigioniero delle promesse fatte: mai più guerre, specie in Medio Oriente; ritiro dall’Iraq e dall’Afghanistan; leadership from behind e parziale disimpegno degli USA dall’onere di essere “sceriffi” dell’ordine mondiale, e così via. Le decapitazioni dei due giornalisti avevano mutato radicalmente l’opinione pubblica americana. Due terzi era un anno fa contrario all’intervento in Siria, dopo che Assad aveva superato la “linea rossa” dell’uso delle armi chimiche, che Obama aveva imprudentemente dichiarato. Oggi, due terzi sono a favore dell’intervento contro l’ISIS per eliminare il pericolo che rappresenta – non tanto per gli USA quanto per gli Stati mediorientali loro alleati – purché esso non comporti l’uso di forze terrestri, ma solo bombardamenti aerei e la fornitura di armi e di addestramento alle forze locali. Esse dovrebbero fornire la fanteria per combattere il Califfato.

Il passaggio da una strategia almeno dichiarativamente difensiva ad una offensiva, e la possibile estensione dei bombardamenti alla Siria, dimostrano ancora una volta l’importanza della “politica-spettacolo”. Taluni sospettano che l’effetto mobilitante delle decapitazioni dei giornalisti non possa essere sfuggita alla direzione politico-strategica dell’ISIS. Esso, infatti, unisce a una brutalità premoderna la capacità di incorporare nella comunicazione stili e tecniche della modernità. Tale reazione occidentale sarebbe stata volutamente provocata. In altre parole, l’ISIS avrebbe teso una trappola a Obama, per indurlo ad intervenire, nella speranza che una “lunga guerra” avrebbe eroso il consenso iniziale e giocato a favore della legittimità del “Califfato”, nelle masse musulmane, in larga misura anti-americane. Il capo dell’ISIS, Abu Bakr (al-Bagdadi), ha scelto come nome di battaglia quello del primo Califfo, successore di Maometto. Un successo lo legittimerebbe in tutto l’Islam sunnita. Emarginerebbe definitivamente quanto rimane di al-Qaeda.

Quella che Obama ha dichiarato di voler fare non è una guerra, ma un’operazione antiterroristica, estesa dall’Iraq alla Siria. L’ha fatto per evitare di dover chiedere l’autorizzazione del Congresso, come aveva fatto in passato per il progettato attacco ad Assad. Un’autorizzazione verrà invece chiesta dalla Casa Bianca per armare gli insorti moderati siriani. Certamente, Obama vuole contenere i vantaggi che i bombardamenti USA contro le forze dell’ISIS in Siria offriranno “gratuitamente” al presidente siriano.

Obama si è dovuto “arrampicare sugli specchi” per giustificare i vari aspetti, per così dire, “curiosi” della sua strategia. Primo, è alquanto difficile capire perché, per bombardare Assad, ci volesse l’approvazione del Congresso, mentre per bombardare i suoi nemici se ne possa fare a meno. L’unica spiegazione possibile è che Obama fosse sicuro che il Congresso non avrebbe approvato la sua richiesta, salvandogli la faccia dopo l’incauta dichiarazione della “linea rossa”. Secondo, Obama non ha chiarito quale sia la minaccia che l’ISIS rappresenta per gli USA. Il Califfato di certo rappresenta un pericolo per vari Stati: dall’Iraq all’Arabia Saudita alla Giordania al Libano e forse alla Turchia e all’Iran. Questi ultimi dovrebbero essere i primi a combatterlo. Invece, sono tutti più o meno sospettosi delle reali intenzioni di Washington, dopo i “pasticci” provocati dagli USA di Obama con la primavera araba, con il “tradimento” di autocrati favorevoli agli USA e con l’abbandono dei nuovi regimi a loro stessi, in particolare in Libia. Terzo, i sunniti temono che gli USA vogliano rafforzare l’Iran. Ciò farebbe parte di un rovesciamento delle alleanze statunitensi in Medio Oriente, a danno delle dinastie del Golfo. Quarto, la decisione di Obama di non impiegare la fanteria americana, lascia il generale dei Marines John Allen, che comanderà la coalizione, con le mani legate.

La strategia di Obama per l’ISIS – bombardamenti aerei, addestramento, aiuti militari, ecc., lasciando ai locali l’onere del combattimento a terra – è direttamente ispirata a quella seguita in Somalia e nello Yemen. Obama ne ha dichiarato il successo. A che cosa si riferisca è difficile capire. Certamente, l’aviazione americana infliggerà all’ISIS dure perdite e costituirà un moltiplicatore di potenza delle forze locali. E’ però altrettanto probabile che l’ISIS si trinceri nelle città, dove gli attacchi aerei sono meno efficaci e provocano un numero elevato di perdite fra i civili. Ciò aumenterà i reclutamenti dell’ISIS e diminuirà il consenso delle opinioni pubbliche occidentali, oltre che arabe.

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