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L’Isis e il ciclico azzardo della sfida fondamentalista

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L’offensiva dell’Isis, contrassegnata da orrori e barbarie, costituisce un nuovo terrificante capitolo della sfida che ciclicamente il fondamentalismo islamico rilancia, sempre in forme diverse e in diversi contesti territoriali, contro culture e ordinamenti ritenuti in contrasto con una certa interpretazione radicale e aggressiva della dottrina religiosa.

Dopo la romantica illusione delle cosiddette “primavere arabe” del 2011, sfociate invece in una nuova stagione di autoritarismi, conflittualità e integralismo religioso, ci troviamo di fronte alla rapida ascesa di un’organizzazione ramificata e transnazionale, caratterizzata da un formidabile apparato militare e da un fanatismo avvezzo alle più spietate e gratuite atrocità. A fronte della minaccia alla pace e all’evoluzione democratica del Medio Oriente rappresentata dall’Isis, il ricordo inquietante di Bin Laden e del suo disegno destabilizzante sembra impallidire.

Quello era terrorismo, sia pure su larga scala, l’Isis si è reso artefice di una vera e propria avanzata militare, conquistando territori che vengono sottratti alla sovranità di ordinamenti statuali in fase di progressiva disgregazione. Ha acquisito un autentico controllo di fascie territoriali di Siria e Iraq e quote rilevanti delle risorse petrolifere dell’area. Ha rilanciato il mito del “califfato”, suggestionando le nuove generazioni del fondamentalismo sunnita da oriente a occidente e compromette ora le fragili basi di regimi arabi logorati dall’autoritarismo, dalle divisioni etniche e religiose, dalla cronica incapacità di ascolto del malessere delle popolazioni.

La condizione di generale deflagrazione che sembra delinearsi nell’area araba e mediorientale (dalla Siria all’Iraq, dalla Palestina alla Libia, con tutti i risvolti in termini di barbarie, sequestri, decapitazioni, esodi di massa e nuovi posizionamenti dei diversi attori internazionali coinvolti) ha indotto Papa Francesco a evocare il rischio di una terza guerra mondiale, sia pure per gradi. Ma i nuovi scenari e la comparsa di nuovi fenomeni politico-militari, come l’Isis, profilano una radicale trasformazione nelle intese e nei tendenziali schieramenti. Si evidenzia, in particolare, una possibile distensione nelle relazioni tra Usa e Iran, fino a pochissimi anni fa a un passo dal conflitto armato. Favorita dall’elezione alla presidenza di Rouhani, più avveduto ed equilibrato del predecessore, la rottura del ghiaccio tra le due potenze è legata soprattutto al nuovo fronte che si è aperto in Iraq e a quello meno recente che dal 2011 insanguina senza sosta la Siria.

L’Isis, arginata l’influenza delle componenti moderate della ribellione siriana, ha trascinato la stessa su posizioni fondamentaliste ed intolleranti, sferrando poi il suo attacco al fragile e contraddittorio regime di Baghdad, dominato dalle componenti sciite e filo iraniane. L’avanzata degli aspiranti restauratori del “califfato” compromette la stabilità del governo autonomo della regione curdo-irachena, la sopravvivenza delle minoranze cristiane, turcomanne e yazide, l’egemonia sciita nel governo centrale di Baghdad e quindi l’influenza del regime iraniano sullo stesso. Vecchie alleanze e strategie consolidate o striscianti, in questo quadro, si rivelano necessariamente inadeguate e anacronistiche e devono essere riviste.

I fondamentalismi riemersi, sia pure in misura diversa, dopo le rivoluzioni in Egitto, Libia e Siria e la guerriglia infinita protrattasi in Iraq per un decennio, dopo l’invasione anglo americana, ora culminata nell’offensiva sunnita dell’Isis, sferrano un colpo decisivo alle teorie dell’esportazione della democrazia con l’intervento armato o con il fattivo sostegno ai ribelli che combattono i vecchi dittatori, senza adeguata distinzione tra le diverse fazioni, tra le quali si annidano sovente fanatismi ancora peggiori dei regimi autoritari che intendono combattere.

Dagli Stati Uniti all’Europa, dalla Turchia, all’Arabia Saudita e al Qatar– sostenitori dell’opposizione siriana sino a poco tempo fa – dal regime siriano di Assad al governo libanese sotto la prevalente influenza di Hezbollah (sciita, filo siriano e filo iraniano), dall’Iraq ancora a guida sciita (con la regione autonoma curdo-irachena al suo interno) fino al regime iraniano degli ayatollah, anch’essi sciiti, si è diffuso un allarme fondato e salutare che induce a rivedere le politiche di appoggio alla ribellione siriana e a realizzare una sorta di inedita intesa tra vecchi nemici o comunque tra attori che sono stati fino ad ora portatori di interessi diversi e contrastanti.

E’ venuto il momento di cambiare strategia. L’inedita tendenziale alleanza, dettata dal comune interesse alla sopravvivenza, potrà forse ricondurre all’ordine la regione e produrre effetti distensivi a medio-lungo termine, a fronte dello scampato pericolo del “califfato”, se così sarà. Una possibile implicazione dell’inedita alleanza potrebbe ravvisarsi peraltro proprio su quel fronte israeliano-palestinese che da decenni non trova una soluzione pacifica nonostante iniziative diplomatiche e negoziati infiniti e continua a generare – anche nelle ultime settimane – mattanze di militari e civili. Una ripresa del processo di distensione potrebbe essere infatti favorita dal disgelo tra Usa e Iran, tenendo conto che il regime di Teheran è il tradizionale sostenitore di Hamas, mentre gli Usa, soprattutto dopo l’ultima terribile guerra-lampo tra Gaza e Israele, appaiono ora meno “garantisti” del passato verso quest’ultimo, sperando, forse, di indurre in tal modo il governo Netanyahu ad una maggiore flessibilità nella ricerca di una soluzione negoziata.

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