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Perché la guerra a Isis è sacrosanta

Ormai siamo arrivati al sacrificio del terzo innocente. La guerra del terrore, avviata con la decapitazione di due giornalisti americani, Steven Sotloff e James Foley, ha raggiunto anche David Haines, un cooperatore umanitario britannico. La liturgia del sacrificio perseguita è la stessa di sempre: un barbaro incappucciato e un eroe decapitato.

Quello che sta avvenendo in Siria e Iraq, nei territori occupati dall’auto proclamato Stato islamico dell’Isis, è il nuovo centro della strategia internazionale che gli Stati Uniti dovranno mettere in atto. Il tutto avviene in un momento storico segnato dall’eccezionale debolezza dell’area nord occidentale rispetto alla deriva espansionistica fondamentalista sud orientale.

L’intento del jihadismo è molto semplice. Alzare il tiro della propria provocante e disumana ascesa di potere, provocando gli Alleati a un intervento militare e a un conflitto tra civiltà religiose, in grado così di aggregare attorno alle parti estremistche l’Islam moderato.

Certo, la comunità islamica non solo ha preso le distanze, ma ha in larga parte assecondato la reazione di Obama, specialmente gli Stati del Golfo, rendendosi disponibile ad aiutare l’azione militare, ormai inevitabile.

Resta il nodo Putin, il quale mal digerirebbe una più intensa presenza in Oriente degli States.

Il colpo inflitto emotivamente adesso ai britannici è però decisivo. Cameron era restato scettico inizialmente ad un invio di truppe attive. Nell’immediato futuro gli sarà molto più difficile garantirsi la neutralità.

Si può dire che la nostra civiltà è ad un bivio.

Non intervenire sarebbe un segno di capitolazione della democrazia. Intervenire rischia di aumentare il rischio di una guerra mondiale che è tanto convenzionale quanto spalmata ovunque.

Il vero punto debole di Obama è che il suo discorso di guerra, al contrario di quello che George W. Bush fece contro Osama, è incerto e non animato da alti ideali, anche se più prudente e assennato di quello del suo predecessore.

Il passaggio di queste ore è delicato e decisivo. Si tratterebbe soprattutto di disinnescare un’errata interpretazione religiosa del conflitto che si mostra più prossimo che evitabile.

Il Papa, alta e autorevole guida della cristianità, è per la pace e guarda ai poveri senza alcuna intenzione imperialista. Perciò non è il popolo dei credenti che fa la crociata all’Islam, ma è un mondo moderno che crede nei diritti originari e assoluti della vita umana e della libertà, religioso e non religioso, che agisce per difendere un futuro di democrazia e di progresso contro un nuovo totalitarismo medievale.

Questa guerra, dunque, è giusta. Questa guerra è sacrosanta, perché si tratta di una legittima difesa etica della parte umana del globo contro quella parte che vuole invece creare un ordine violento sottomettendo ragione, sentimenti e spiritualità individuali alla giungla animalesca della violenza sadica e crudele di un clan spietato.

Se siamo uomini, e non siamo animali, dobbiamo anche batterci e anche morire, se è necessario, per non perdere la nostra natura, la nostra dignità, le conquiste etiche della tradizione umanistica greco-latina.

Così come le democrazie sono intervenute militarmente negli anni Novanta per arrestare il massacro della Serbia cristiana contro le minoranze musulmane, oggi si deve neutralizzare il fondamentalismo pseudo islamico dell’Isis, difendendo le minoranze curde e cristiane mediorientali da chi le uccide e perseguita senza altro motivo che la follia sanguinaria. Se non si è fermi nel mobilitarsi per un solo essere umano innocente, non lo faremo neanche di fronte all’olocausto di massa.

I valori in gioco sono, nei fatti, gli stessi di allora, gli stessi del ’45, gli stessi di sempre, sebbene le responsabilità siano perfino maggiori rispetto a passato.

La fede non c’entra, sia essa cristiana o musulmana. È l’etica universale che lo impone alla comunità internazionale. È la democrazia liberale, con il suo capitale spirituale e materiale, che lo reclama. È l’umanità tutta che lo esige, per tutelare il bene comune e la comune prosperità di tutti i popoli nella pace.

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