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Come e perché Al Qaeda ha ceduto alla forza dell’Isis

Di fronte alla barbarie delle decapitazioni di ostaggi, degli stupri di massa e delle minacce all’Occidente, lo Stato islamico in Siria e Irak deve gestire non solo la reazione militare dell’Occidente ma anche le avances di un “partner” assai scomodo. Al Qaeda – o quello che ne resta – ha infatti ufficialmente chiesto di unire le forze per una lotta comune e senza quartiere. Una richiesta che non deve stupire ma che denota chiaramente chi, in questa fase storica, gode di maggior forza e di maggior prestigio.

L’autoproclamazione del Califfato islamico e del ruolo di al Baghdadi come Califfo era stata non solo disconosciuta ma addirittura denigrata dalla cupola del movimento qaedista, con tanto di comunicati ufficiali dalle montagne dell’Afghanistan. “Il Califfato non è un’evoluzione del nostro movimento e non ne riconosciamo legittimità e obiettivi in Irak” aveva dichiarato un portavoce di al Zawahiri. In effetti, il Califfo Abu Bakr non era, fino a qualche mese fa, che un reietto delle cellule di al Qaeda in Irak, un gregario cioè che avrebbe voluto farsi capo operativo e carismatico. Un ruolo che per diversi anni era spettato ad al Zarqawi, considerato il numero 2 di al Qaeda e il “preferito” di Osama Bin Laden. Il missile di un drone uccise il luogotenente iracheno, lasciando quel ramo territoriale scoperto e senza un leader.

Nel giro di un paio di mesi, però, anche al Qaeda deve aver pensato che forse esiste una convenienza ad invocare l’unità di azioni e di intenti. Il Califfato è infatti riuscito laddove al Qaeda ha sempre fallito: individuare un territorio esteso per insediare le proprie postazioni permanenti e dar vita ad una forma di “statualità”. L’efferatezza delle azioni sul campo, poi, è qualcosa che al Qaeda non ha potuto più sperimentare dopo che la reazione occidentale agli attacchi di New York, Londra, Madrid, Bali, Tunisi o Marrakesh ha portato all’uccisione del suo capo indiscusso e alla latitanza dei suoi gregari nelle caverne al confine tra Afghanistan e Pakistan.

L’ISIS sta dimostrando che il terrorismo può purtroppo ancora ritornare sul campo e può ancora infliggere colpi mortali. Peraltro, con una sofisticazione comunicativa che soltanto Bin Laden era in grado di garantire. Non a caso al Zawahiri, il medico egiziano che ne ha preso il posto, non ha diffuso in questi anni alcun videomessaggio.

In queste ore tutte le cellule che direttamente o indirettamente afferiscono alla galassia qaedista si stanno affrettando a chiedere una affiliazione all’ISIS. Questo perché i movimenti terroristici sono costantemente alla ricerca di un brand forte per moltiplicare il proprio messaggio di fanatismo e dare vigore alla propria azione; inoltre, affiliarsi significa ricevere dall’ISIS soldi, “manovalanza” e nuove tattiche operative. Al Qaeda e le sue diverse “filiali” nel mondo hanno perso vigore proprio nel momento in cui sono state tagliate le principali fonti di finanziamento. L’ISIS dispone oggi di un tesoretto di circa 2 miliardi di dollari, invidiato da tutti gli altri movimenti. In più, il Califfato è riuscito a riportare in vigore una tendenza che si era registrata soltanto nei mesi successivi all’11 settembre, ovvero l’arrivo massiccio sul campo di battaglia di combattenti stranieri, immigrati di prima o seconda generazione o convertiti all’Islam.

Le analisi sui fenomeni terroristici, anche in una prospettiva storica, ci dicono che questo passaggio è assolutamente ricorrente e prevedibile. Tutti i movimenti terroristici a matrice ideologico – religiosa, cioè, perdono progressivamente forza dopo la decapitazione della testa e quindi l’uccisione o l’arresto dei capi. Da quel momento, ovvero dalla morte di Osama Bin Laden, il movimento si fraziona in una serie di “succursali” territoriali, che mantengono inalterato il brand ma che assumono agende e priorità diverse tra loro, perdendo la compattezza dell’obiettivo più grande. In questo modo, a partire dal 2012, si sono costituiti movimenti come al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), al Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), al Qaeda in Irak (AQI). Proprio la commistione tra quest’ultima cellula, le minoranze sunnite ostracizzate in Irak, i combattenti qaedisti confluiti sul teatro siriano e i gruppi di ribelli contro il regime di Assad hanno trovato a un certo punto una convenienza ad unirsi sotto un’unica bandiera nera e, soprattutto, hanno trovato scarsa o nulla resistenza nel conquistare alcune postazioni anche oltre il confine iracheno.

Da queste debolezze è nata la forza dell’ISIS, a cui tutti guardano: il mondo con orrore e preoccupazione; i movimenti del fanatismo militante con ammirazione ma anche con la consapevolezza che questa è l’ultima risorsa per il terrorismo. Ecco perché smantellare i santuari dell’ISIS e sconfiggere il Califfato potrebbe segnare la fine del terrorismo qaedista.

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