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Come e perché Teheran può aiutare a sconfiggere l’Isis

Grazie all’autorizzazione dell’intervistato pubblichiamo una conversazione con Davide Urso realizzata dall’agenzia di stampa iraniana IRNA

Il presidente Usa, Barack Obama ha annunciato che mercoledì, alla vigilia dell’anniversario degli attentati dell’11 settembre 2001, spiegherà agli americani il suo «piano di azione» contro la minaccia jihadista, che comprenderanno i raid aerei per sostenere lo sforzo delle forze irachene e curde che combattono sul campo. Lei cosa ne pensa?

Il “piano d’azione” del Presidente Obama contro il terrorismo jihadista dell’Isis non potrà discostarsi troppo dal discorso pronunciato a West Point nel maggio scorso. Si tratta di un piano che unisce il soft power americano con attività hard. In pratica, da un lato, il Presidente Obama negherà il ruolo degli Stati Uniti quale “sceriffo” degli equilibri mondiali aprendo al ruolo attivo che dovranno giocare le organizzazioni regionali e gli Stati-nazione nel garantire la loro stessa sicurezza. Diversamente, il costo economico e di reputazione interna per gli USA sarebbe troppo elevato, considerando la tipologia della minaccia e le dinamiche post-belliche degli ultimi interventi americani (Afghanistan e Iraq). Dall’altro lato, il Presidente rafforzerà il concetto che solo attraverso una crescente e più florida economia nella regione si potrà rafforzare il livello di prosperità, fiducia verso le istituzioni e stabilità. Si tratta di una sinergia tra investimenti strategici, per migliorare le condizioni sul field, creare nuove opportunità socio-lavorative ed entrare nella fase di “post-conflict rehabilitation”, e protezione dell’ambiente, per ridurre i rischi ambientali e sfruttare il la maggiore indipendenza energetica degli Stati Uniti. Su base dottrinale, il Presidente Obama rinnegherà la visione neoconservatrice del suo predecessore, puntando sulla capacità degli Stati Uniti di cavalcare la globalizzazione e l’evoluzione della tecnologia per innestare istituzioni democratiche ed economia di mercato nella regione. Globalizzazione e tecnologia sono i due settori guida dell’attuale dinamica mondiale, in cui gli Stati Uniti hanno ancora la supremazia a livello globale, ma sono anche quelli che hanno permesso alle cosiddette TNTs (Trans-National Threats) – terrorismo, criminalità organizzata, traffico di droga e di esseri umani, cyber-attack, proliferazione di armi di distruzione di massa, migrazione illegale, ecc. – di modificare la natura della minaccia globale e di essere terreno fertile per il terrorismo tipo Isis. Su base strategica, la suddetta sinergia si manifesterà con un’inclusione americana nella vita politico-istituzionale dei singoli Stati (cd. creazione di una “good governance” e “capacity-building”) e con missioni militari flessibili e mirate, senza “boots on the ground”, basate principalmente sul ruolo dei servizi di intelligence, sull’uso di droni per sorveglianza e attacchi tattici e su raid specifici. Il Presidente Obama parlerà, con molta probabilità, di un falso neo-isolazionismo americano, visto che gli Stati Uniti saranno sempre vigili oltre-frontiera, ma integrandolo con la capacità di proiezione della forza militare e con il necessario ridimensionamento delle spese belliche. Ciò si tradurrà in una scelta verso la “sicurezza cooperativa”, azioni militari congiunte (meglio se multilaterali o regionali), attività di addestramento, scambio con i partner di expertise e lessons learned sulle TNTs e un uso maggiore della “diplomazia preventiva”, di sanzioni e di appelli al rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. In ultimo, il “no boots on the ground” avrà un limite: se gli interessi vitali americani o quelli di player con riflessi, anche indiretti, sugli interessi regionali vitali per la
politica americana dovessero essere minacciati, allora il Presidente Obama non potrà esimersi dall’essere il Commander-in-Chief.

In che modo – secondo lei – è possibile combattere e sconfiggere l’Isis?

Mi permetta di dire prima di che tipo di minaccia si sta parlando. L’Isis è un’organizzazione terrorista a matrice militare e criminale che funziona piuttosto bene. Ha una leadership politica autorevole, un livello istituzionale interno strutturato, addestramento e arsenale assimilabile ad un esercito regolare, capacità di utilizzare i sistemi d’informazione e sicurezza per attrarre consenso, fare proselitismo e valutare in modo analitico le proprie operazioni sul terreno (danni inflitti al nemico, danni subiti, risultato dell’operazione quasi in tempo reale, ecc.) e dotarsi delle necessarie risorse economiche per continuare la guerra. A mio avviso, bisogna adottare una strategia flessibile, sapendo che sconfiggere l’Isis come ideologia è impossibile ma che distruggerlo come forza para-convenzionale e geografica è non solo possibile ma necessario e che sarà una guerra di medio-lungo termine. La flessibilità strategica dovrebbe puntare, nel breve, su attacchi militari terrestri ed aerei per distruggere le dotazioni di potenza dell’Isis in grado di utilizzare tattiche convenzionali come forza di fanteria motorizzata e meccanizzata ed elevato equipaggiamento di artiglieria, per analizzare il teatro delle operazioni, visto che l’Isis è in grado su utilizzare tecniche asimmetriche quali l’uso di IED (Improvised Explosive Device), attacchi suicidi e operazioni “mordi e fuggi”, nonché per “spaventare” i moltissimi mercenari pagati a caro prezzo dal Califfato per aumentare il numero dei combattenti e il livello di addestramento. Secondo punto è minimizzare la capacità di accumulo di risorse economico-finanziarie, principalmente sul controllo dei pozzi petroliferi, che contano per circa il 50% delle entrate dell’Isis, sul blocco di ogni transito finanziario, principalmente dai Paesi del Golfo, senza l’avallo delle istituzioni centrali di Iraq e Siria, e il blocco della rete da cui affluiscono le donazioni all’Isis potenzialmente da tutto il mondo. L’Isis con i soli saccheggi, rapimenti e tasse rivoluzionarie non avrà alcuna chance di manovra. Qui dovranno giocare un ruolo chiaro e attivo la Turchia, che troppo spesso ha agito in modo ambiguo, e l’Egitto, uscito rafforzato dalla capacità di negoziazione nel conflitto israelo-palestinese. Entrambi poi saranno importanti nell’arduo tentativo di convincere i clan sunniti moderati ad integrarsi. Terzo aspetto è continuare a rafforzare i ranghi dei peshmerga curdi, che meglio di tutti conoscono il terreno e che rappresentano uno scudo naturale anti-Isis. Altro punto sarà la capacità della diplomazia di includere l’arco sciita Iran-Siria-Iraq-Libano. La situazione in Siria è la dimostrazione che senza un forte blocco sciita l’intera regione sarebbe oggetto di nuovi conflitti, viste le divisioni clanico-settarie sia interne ai singoli Stati sia esterne tra Stati e gli interessi nazionali ancora prevalenti sulla stabilità regionale. Ultimo punto e unire le forze tra le “law enforcement institutions”, in particolare sviluppare programmi per rafforzare il controllo e la gestione delle frontiere, il traffico illegale di migranti e di beni non registrati sul mercato nero e un training delle forze di polizia e dell’esercito locali per il controllo dei documenti, per il presidio del terreno e per la gestione dei checkpoints.
Nel medio periodo, occorrerà adottare una strategia di stabilizzazione della regione. Ciò significa, in buona sostanza, ricostruire istituzioni inclusive, investimenti economico-industriali, preservazione dei confini e protezione delle minoranze etnico-religiose. Fondamentale sarà il ruolo delle organizzazione regionali (ad esempio, Lega Araba, Unione Africana, OSCE, NATO, ecc.) e riuscire a strutturale partnership strategiche tra i principali attori regionali, Arabia Saudita, Turchia, Egitto e Iran. Non dobbiamo dimenticare che la regione è parte integrante della dinamiche della globalizzazione. L’essenziale coinvolgimento dell’Iran dovrà essere sostenuto dalla partecipazione politico-diplomatica e di progetti della Russia, anch’essa soggetta al rischio inclusione del terrorismo di matrice islamica e dalla modifica della rotta dei flussi energetici, e della Cina, che potrebbe vedere minata la sua strategia di “aggressione economico-finanziaria”.

Quali rischi corrono i Paesi della regione e l’Europa di fronte ad espandersi del cosiddetto stato islamico dell’Isis?

Per quanto riguarda i Paesi della regione, i numerosi rischi li abbiamo definiti nelle domande precedenti. Per l’Europa, oltre all’ovvio pericolo di proselitismo culturale interno e alla necessità di aumentare la securitizzazione di obiettivi strategici, i rischi sono principalmente legati al pericolo di fallimento della “politica di vicinato” dell’Unione Europea, alla destabilizzazione dei sistemi-paese viciniori con il rischio di nuovi conflitti lungo la frontiera sud-est, ad una divisione ancora più marcata tra l’area del Mediterraneo e l’Europa centro-settentrionale, minando i già insufficienti equilibri sistemici, ad un ammodernamento e rafforzamento delle capacità militari, compromettendo il difficilissimo e spesso miope processo di “arms control” e, di conseguenza, la mancanza di fiducia tra gli Stati, ad un ruolo sempre più militare della NATO come Alleanza di deterrenza e difesa militare della regione Euro-Atlantica, offuscando il dialogo politico-diplomatico, nonché ad uno spread del terrorismo che significherebbe più failing o failed-States lungo le frontiere sud-est europee con massicci movimenti di immigrazione.

Quale ruolo può giocare l’Iran sciita per combattere l’Isis?

Nel quadro del “multipolarismo imperfetto”, l’Iran dovrebbe avere un ruolo di equilibratore regionale. Se la domanda riguarda l’Iran sciita, difficile pensare ad un ruolo del blocco sciita capace di generare un processo politico di solidarietà regionale. Ogni azione creerebbe divisioni e rovesci della medaglia lungo tutto l’arco di crisi e non solo nel mondo sunnita, anch’esso diviso al suo interno. Basti pensare al fatto che la sola Arabia Saudita è attiva su tre fronti: anti-iraniano, anti-sciita e anti-Fratellanza Musulmana. A seconda del fronte trova uno Stato piuttosto che un altro pronto ad appoggiare Riyadh. Se invece la domanda intende l’Iran politico sciita, allora Teheran potrebbe fare molto. Primo, arrivare ad un accordo sul negoziato sul programma nucleare iraniano entro la fine di novembre allargato alla stabilità strategica regionale. Visti gli attori presenti sul tavolo delle negoziazioni, tale stabilità strategica non potrà riguardare solo il versante Est del Medio Oriente, ma anche quello Sud-Ovest, con partnership strategiche e “tailored” secondo lo Stato di riferimento, Turchia, Egitto e monarchie del Golfo, e accordi industriali
principalmente nei settori energetico e delle infrastrutture. Da un lato, l’Iran, dopo anni di sanzioni ed embarghi, sarebbe in grado di sviluppare un piano di ricostruzione e industriale per il futuro dello Stato anche come proiezione di potenza, dall’altro mitigherebbe sia i rischi regionali con alleanze strategiche, sia i rischi di mettere a repentaglio la salute delle istituzioni nazionali domestiche.

Mentre l’occidente si affrettava ad armare i ribelli in Siria per combattere contro il presidente Bashar al Assad, pur sapendo che tra loro c’erano dei mercenari e non Siriani che combattevano in nome del cosiddetto jihad islamico, gli analisti strategici negli Usa e nell’Ue non prevedevano l’espansione di questo fenomeno?

Nella UE non vi è una politica estera comune, non ha un’idonea capacità strategica e, soprattutto, nessuno Stato nazionale intende dotare Bruxelles di mezzi idonei ad incidere sul cosiddetto “ciclo del conflitto” (“early warning”, prevenzione del conflitto, gestione del conflitto, fase di riabilitazione/ricostruzione). L’infelice – per usare un eufemismo – gestione del precedente Alto Rappresentante della politica estera UE è servita solo ad aumentare il numero della forza diplomatica della UE, senza dotare l’Unione di reali capacità, neanche quelle proprie della diplomazia, quali facilitazione del dialogo, negoziazione e mediazione. Non esiste un “early warning system” vero e proprio e i servizi di intelligence nazionali sono riluttanti a mettere a disposizione le proprie informazioni, che rappresentano una forma di potere. Per quanto concerne gli Stati Uniti, gli analisti strategici sono stati divisi sin dall’inizio della guerra in Siria sulla possibile escalation terroristica del conflitto. Di fatto, la scelta di una “ritirata strategica” del Presidente Obama dal Medio Oriente, in mancanza di una leadership sostitutiva, ha lasciato la regione con dei vuoti di potere che hanno facilitato il rafforzamento dei gruppi terroristici più violenti e l’escalation del conflitto. Gli analisti strategici obamiani si sono trincerati dietro la volontà di non ripetere un nuovo Afghanistan e un nuovo Iraq, che avrebbe minato la reputazione interna del Presidente, già al minimo dalla sua elezione, la necessità di risparmiare soldi per la difesa e di investirli in riforme sociali, e di spostare l’asse strategico dal Medio oriente all’Asia orientale.

Alcuni Paesi noti della regione sostengono economicamente i terroristi dell’Isis, anche se ufficialmente non lo dichiarano e molte compagne continuano ad acquistare il petrolio proprio dall’Isis a prezzi stracciati, chi è – secondo lei – che trae maggior vantaggio dagli disordini creatosi in Iraq e in Siria e l’insicurezza nella regione?

Sono soprattutto le monarchie del Golfo, in modo diretto e indiretto, a finanziare e rifornire l’Isis, così come al-Nusra. Il petrolio gioca un ruolo chiave. Vale milioni di dollari al giorno, indispensabili per comprare sistemi d’arma, pagare i mercenari e i miliziani, sottraendoli con il denaro alle forze regolari da cui percepiscono uno stipendio più basso (circa 700 dollari al mese), entrare nelle case dei sunniti moderati migliorandone la condizione economica, aumentare l’uso del mezzi d’informazione e aprire scuole coraniche per la propaganda. Più grave è il fatto che l’Isis avrebbe negoziato con traders locali ben conosciuti dagli Stati, Turchia, Iraq, Siria e Libano, per la vendita di petrolio ed elettricità ad un prezzo scontato rispetto alle quotazioni di mercato, oltre che di derrate alimentari, oggetti d’antiquariato e reperti
archeologici. Si parla anche di vendite di petrolio sul mercato nero che transiterebbe in Iran via Kurdistan. Dire chi trae vantaggio dall’insicurezza della regione è quindi un esercizio analitico molto complesso. Da un punto di vista strategico, possiamo dire che mai come in questo momento vi è la grande opportunità per le potenze pan-regionali, Stati Uniti, Russia e Cina (omettiamo per il momento la UE in attesa che definisca una coerente strategia di politica estera), le potenze regionali, Turchia ed Egitto da un lato e Iran dall’altro, e le organizzazioni regionali (Lega Araba, Unione Africana, OSCE, NATO, ecc.) di aprire un dialogo per definire gli equilibri e gli assetti strategici della regione. Gli Stati del Golfo dovranno poi decidere con chi vogliono giocare. Non possono avere soldi e basi dall’occidente e, al contempo, sostenere il terrorismo.

Davide Urso è analista energetico ed esperto di geopolitica

Clicca qui per leggere l’intervista in lingua iraniana

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