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Da Belgrado a Tripoli, lezioni imparate (o meno) di guerra aerea

Sia dal punto di vista politico sia tecnico, negli ultimi conflitti c’è stata un’inosservanza formale e sostanziale di una strutturazione che ormai dovrebbe essere uno standard vincolante per i Paesi, e che per la parte politica dovrebbe vincolare a una risoluzione del Consiglio di sicurezza e auspicabilmente una delega alla Nato alla condotta delle operazioni. Invece non ci fu nel Kosovo una risoluzione Onu ancorché la comunità internazionale fosse sostanzialmente d’accordo sull’intervento, mentre le operazioni iniziarono sotto la gestione della Nato. Invece in Libia ci fu la risoluzione Onu ma non la delega immediata alla Nato, un errore molto rilevante dal punto di vista tecnico, perché le operazioni dei primi giorni si sono sviluppate nella confusione e nell’incertezza. Dopo qualche giorno cominciò a funzionare la macchina. Adesso purtroppo, in Siria ed Iraq, stiamo assistendo a un progressivo deterioramento della risposta della comunità internazionale agli interventi sul terreno. Non c’è stata né una risoluzione Onu né tantomeno una organizzazione tecnico-militare preliminare per la condotta delle operazioni. Si tratta di una tendenza che andrebbe contrastata.

CLOSE AIR SUPPORT

In Kosovo si creò da subito una doppia interpretazione circa le modalità delle operazioni: una facente capo al generale Wesley Clark a Bruxelles, l’altra al generale Mike Short a Vicenza. Short era per l’applicazione della dottrina così come previsto, ovvero colpire obiettivi che fiaccassero la volontà di Milosevic nel proseguire nella sua azione. Clark invece ipotizzava un impiego dell’Air power finalizzato a colpire sul terreno obiettivi di dettaglio quali carri armati, postazioni, depositi, ecc. L’esempio di Short era che non potevamo tollerare che a Belgrado si manifestasse contro la guerra mentre andavamo a caccia di carri in Kosovo con gli F-16, impiegando una straordinaria quantità di risorse pregiate per cercare un singolo mezzo. Avrebbe piuttosto condotto operazioni per lasciare Belgrado al buio, senza energia, senza acqua, senza comunicazioni. In Libia, per altre motivazioni, si è ripetuto lo stesso errore: quello di utilizzare assetti pregiati e costosi per cercare il singolo obiettivo di poco valore. Questo naturalmente è rivelatore di dottrine di impiego dell’Air power che andrebbero rivisitate profondamente affinché si possano meglio attagliare agli scenari post-Libia, che dal Kosovo in poi hanno evidenziato note comuni di significative estensioni e dimensioni, verosimilmente attuali in Siria e Iraq.

CAPACITÀ SEAD (SUPPRESSION ENEMY AIR DEFENSE)

La differenza fra lo scenario jugoslavo e quello libico rispetto alle capacità di difesa aerea intesa come combinazione di radar di sorveglianza e mezzi attivi contraerei asserviti consiste in una sostanziale maggiore capacità serba rispetto a quella libica. In Jugoslavia per i primi giorni di conflitto, a fine marzo 1999, nonostante le missioni Sead operate con Tornado Ecr italiani e tedeschi (i primi a partire), si assistette a una reazione violenta della contraerea serba, operata con comportamenti grossolani ma che denotavano una volontà di utilizzo dei propri mezzi di difesa contro il massiccio attacco Nato. Alcune notti si arrivò ad avere 30-35 lanci di missili, il più delle volte in funzione balistica (ossia senza la guida radar). I serbi, prima di vedere azzerata la propria capacità di difesa antiaerea, sono giunti ad abbattere 2 velivoli della coalizione (tra cui un F-117 Usa teoricamente“invisibile” e, mi pare, un F-16 belga). In Libia le missioni Sead sono state senz’altro più robuste, grazie anche a una salva iniziale molto massiccia di missili cruise Usa e ancora una volta grazie al contributo italiano.

INTELLIGENCE

L’intelligence è una delle capacità che era e resta deficitaria nel build-up di una capacità di condurre operazioni belliche. Siamo ancora asserviti in larga misura agli Usa e tuttavia abbiamo assistito in Libia al battesimo del fuoco della capacità di osservazione dalla Terra fornita dalla costellazione Cosmo-SkyMed di concezione e realizzazione italiana, che assicura performance operative di eccellente livello, superiore anche agli altri sistemi esistenti. È certamente una capacità che va irrobustita e sulla quale purtroppo abbiamo dovuto ancora una volta rimarcare l’assenza di una iniziativa europea che portasse a dare forma concreta ad una capacità continentale nel quadro di una edificazione della Pesc dal basso: senza così incontrare le difficoltà al momento quasi insormontabili di una costruzione dall’alto, con una mancata opportunità per la nostra industria spaziale.

I MEZZI NECESSARI

L’aereo da combattimento di terza o quarta generazione impiegato nei contesti bellici attuali, con l’ultimazione degli obiettivi programmabili può rilevarsi inutile, dispendioso e anche pericoloso per l’incapacità di colpire target di opportunità. Se quindi si vuole conferire loro utilità di impiego in teatri complessi, con target a rischio di danni collaterali difficilmente individuabili, o dotati di mobilità incompatibile con i tempi di programmazione del target, bisognerà fare riferimento a velivoli con migliori qualità di raccolta di informazioni via Datalink, con incrementate capacità di distribuzione dell’informazione, e armamenti più adeguati rispetto ai singoli obiettivi.

POSIZIONE STRATEGICA DELL’ITALIA

In ambedue le occasioni l’Italia non ha tratto alcun vantaggio come rendita di posizione né dal punto di vista politico né sotto altri profili. Pur essendo nelle condizioni di interdire con la sua volontà la continuazione delle iniziative o di renderle estremamente più difficoltose, con il diniego o la limitazione dell’uso del proprio territorio e assetti, l’Italia non ha tratto alcun beneficio dalla sua partecipazione militare a causa (in Jugoslavia, ma soprattutto in Libia) di una messa a fuoco insufficiente e tardiva del ruolo che il nostro Paese avrebbe potuto giocare al momento del concepimento delle operazioni. Nel 1999 con il governo D’Alema ci fu molta accuratezza nella collocazione internazionale dell’Italia e nei suoi comportamenti; non altrettanto si può dire del ministro della Difesa La Russa e dei suoi colleghi di governo nel 2011. Basti ricordare che l’allora ministro della Difesa omise perfino di citare il comportamento delle forze armate nella campagna di Libia come fatto emblematico del suo mandato. Un altro dettaglio a testimonianza della scarsa consapevolezza del ruolo del nostro Paese è il mancato introito, per decine di milioni di euro, a seguito della deviazione dei flussi di traffico dalle consuete rotte che attraversavano l’area di responsabilità dell’Italia. Danni per cui non è stata richiesta alcuna compensazione.

IL PROBLEMA DEL “GIRARE A VUOTO”

L’Air power, inteso come impiego di caccia delle forze aerotattiche e missili da crociera, colpisce obiettivi normalmente programmabili, di cui siano note le coordinate. Quando la lista di obiettivi finisce perché la mobilità sul terreno o l’intelligence insufficiente non sono in grado di indicare target con cui programmare l’armamento, a quel punto le forze aeree tradizionali rimangono inattive o rischiano di causare danni inaccettabili in termini di vite di innocenti: i cosiddetti danni collaterali. Si è fatto poco dal Kosovo ad oggi in questo senso. Alcune iniziative volte a coinvolgere le parti in causa sostenute dalla campagna aerea non sono state sviluppate e strutturate a sufficienza. Nelle fasi finali del conflitto in Kosovo furono messi a punto contatti con l’Uck (Esercito di liberazione del Kosovo), la cui collaborazione portò a dei risultati positivi anche se limitati. La stessa cosa è stata fatta in Libia, però la strutturazione di questa componente importante di collaborazione non può essere considerata al momento un asse portante nell’impiego dello strumento militare.

IL TEMA DEI “BOOTS ON THE GROUND”

La campagna serbo-kosovara fu interamente aerea fino all’8 giugno 1999, che segnò la cessazione degli attacchi aerei e l’insediamento di contingenti Nato sul territorio kosovaro con funzioni di stabilizzazione e di ristabilimento di condizioni di coesistenza pacifica tra le varie etnie presenti sul territorio. Purtroppo in Libia non vi è stata una risoluzione Onu che contemplasse una fase di stabilizzazione. Ci si è limitati a raccomandare ai Paesi di prevenire o neutralizzare l’indebita diffusione degli armamenti e degli arsenali libici, ma non si è andati molto oltre questo. Oggi le conseguenze di questo errore sono sotto gli occhi di tutti. Anche questa è una lezione da non dimenticare se si dovessero ripresentare circostanze simili: non si può intervenire “chirurgicamente” su un corpo e non contemplare un decorso post-operatorio nella fase di recupero, abbandonando il malato in sala operatoria. A quel punto basterebbe un’infezione a creare condizioni peggiori di quelle per cui si era intervenuti chirurgicamente.

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