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Corte Costituzionale, tutti gli interessi in conflitto

A questo punto, dopo sedici votazioni andate a vuoto, e la rinuncia formale di Forza Italia a due candidature riuscite sgradite ad una parte dei suoi stessi parlamentari, può ben definirsi un penoso accanimento terapeutico la pretesa dei due partiti protagonisti di questa vicenda – il Partito Democratico e la stessa Forza Italia – di imporre alle Camere i due giudici mancanti al plenum della Corte Costituzionale senza investire preventivamente della scelta i rispettivi gruppi parlamentari.

Ciò potrebbe accadere solo con le procedure trasparenti di una proposta del partito, di una franca discussione e di una votazione, preferibilmente segreta, come quella richiesta nell’aula delle Camere in seduta congiunta: l’unica strada, questa della discussione e del voto segreto nei gruppi, per poter poi decentemente reclamare, e augurabilmente ottenere,  il rispetto della disciplina.

Senza una procedura di questo tipo l’elezione dei due giudici della Corte Costituzionale, visti i tre quinti dei voti dell’assemblea congiunta delle Camere richiesti per un esito positivo, continuerà a rimanere appesa, come a un cappio, all’articolo 67 della Costituzione. Che riconosce ad ogni parlamentare il diritto di esercitare le sue funzioni “senza vincolo di mandato”.

Sia all’interno del Pd, fermo alla candidatura dell’ex presidente della Camera Luciano Violante, sia all’interno di Forza Italia, passata dalle candidature di Antonio Catricalà e di Donato Bruno a quella dell’ex avvocato generale dello Stato Ignazio Francesco Caramazza, esistono troppe tensioni politiche, ma anche ambizioni personali più o meno represse, per pensare di poterle neutralizzare con l’appoggio, occulto o palese che sia, di altri gruppi, di maggioranza o di opposizione.

Al problema delle procedure se ne aggiunge tuttavia un altro di più alto livello, politico e morale insieme. Un problema di sensibilità, circoscritto ora alla sola candidatura di Violante, dopo il ritiro del senatore forzista Bruno, mediaticamente danneggiato da una vicenda di consulenze fallimentari finite in una indagine giudiziaria a Isernia. E’ il problema, in particolare, della vecchia ma sempre meno sostenibile abitudine della politica di pescare al proprio interno i cinque giudici della Corte Costituzionale di elezione parlamentare.

E’ più volte accaduto in passato, quando le forze politiche peraltro erano più solide e autorevoli, capaci di portare alle urne percentuali bulgare di elettori, addirittura attorno al 90 per cento, ma non è più tempo adesso di lasciare le chiavi, o quasi, della Corte Costituzionale ai partiti. Che nella migliore delle ipotesi sono in grado di raccogliere il 40 per cento dei voti del 52 per cento degli elettori, com’è accaduto nella scorsa primavera al Pd guidato da Matteo Renzi, in occasione del rinnovo del Parlamento europeo.

Al netto di un certo trionfalismo a troppo buon mercato, con i partiti ridotti a queste dimensioni, per non parlare d’altro, risulta francamente avventata, se non odiosa, la loro pretesa di mandare alla Corte giudici dalla valenza soprattutto politica, pur al riparo dei requisiti professionali – quando esistono davvero – prescritti dall’articolo 135 della Costituzione: “magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria ed amministrative, professori ordinari di università in materie giuridiche, avvocati dopo venti anni di esercizio”.

Giudici costituzionali provenienti più o meno direttamente dal Parlamento e, più in generale, dalla politica hanno, fra i vari inconvenienti, quello di poter e dover essere chiamati a pronunciarsi su leggi che possono avere fatto o contribuito a fare. Per quanto ignorato nel passato, il conflitto d’interessi è diventato troppo evidente per essere ancora aggirato. O per pretendere che sia vietato con una norma esplicita della Costituzione. Può bastare ed avanzare il buon senso. O il buon gusto.

Francesco Damato

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