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I movimenti dalle basi, anticipano le scelte americane contro l’IS?

La US Marine Corp ha predisposto un contingente di oltre duemila uomini da inviare in Kuwait, sotto la guida di CENTCOM, con compiti di intervento rapido (massimo in 15 minuti), per effettuare evacuazioni, assistenza umanitaria, sostegno alle infrastrutture, recupero tattico di velivoli. Avranno a disposizione, a quanto pare, anche aerei di supporto come gli AV8 Harrier, i C-22 Osprey e i KC-130 Super Hercules.

L’unità si chiama Special-Purpose Marine Air Ground-Task Force (SPMAGTF), ed è la stessa utilizzata per l’evacuazione dell’ambasciata americana in Libia, avvenuto il 26 luglio. In quell’occasione un gruppo di 80 Marines, volò da Sigonella, “imballò” tutti i veicoli diplomatici, prese i 150 dipendenti, e in convoglio (scortato da due F-16 e altri due Osprey) si diresse verso le aree rurali al confine tunisino. Operazione condotta, su richiesta dell’ambasciatore Deborah jones, senza le mimetiche di ordinanza, ma in abiti civili, e senza sparare un colpo, ma soltanto attraverso la mediazione con le milizie combattenti incontrate durante il tragitto. Arrivati in Tunisia, l’esercito locale aveva poi accompagnato il convoglio all’aeroporto.

In Kuwait avranno il compito di intervenire nel caso si dovessero creare problemi all’ambasciata/fortezza di Baghdad, ma non è detto che il SPMAGTF non possa essere usato, in un secondo momento, come primo contingente di terra. Magari, saranno proprio le capacità di mediazioni ad essere utilizzate nel dialogo con i clan sunniti locali. Passaggio fondamentale per combattere lo Stato Islamico, e che ultimamente sembra aver imboccato una strada percorribile.

Supposizioni, sia chiaro, o al limite letture e analisi di realtà esistenti che possono già rivelare step successivi del piano “decay and degrade” di Obama, ancora nascosti.

Stesso ragionamento vale nel caso della designazione dei 303 uomini della 122a Fighter Wing in Medio Oriente – direzione finora non precisata. Vero che la decisione era in stand by da almeno un anno, ma l’associazione automatica dietro allo spostamento dei membri della National Guard di Fort  Wayne, va subito agli A-10 Warthog (foto). Secondo fonti della base citati dal Journal Gazette (quotidiano locale della città dell’Indiana, fondato nel 1863), almeno 12 dei 21 bimotori d’attacco al suolo disponibili a Ft Wayne, sarebbero in partenza con il contingente.

Esistono le possibilità che gli A-10 entrino in azione contro le forze del Califfato? Per il momento non è chiaro, fatto salvo che – come già la Guerra del Golfo ha dimostrato – le “ipotesi” tecniche per l’impiego ci sarebbero tutte, per il momento sono solo supposizioni, anche perché i “Blacksnakes” (soprannome della 122a) potrebbero essere inviati in basi diversi e essere assegnati ad altri teatri.

Ma l’eventuale decisione di mettere in azione gli A-10, significherebbe che, nel piano, ampliare ad operazioni di terra la campagna contro il Califfo, è tra le opzioni.

I caccia della Fairchild sono al centro di una lunga discussione politico-militare: l’Air Force vorrebbe mandarli in pensione, ma la possibilità ha sollevato dure proteste dal Congresso. Sono in molti tra legislatori e generali, a ritenerli i migliori sistemi close-air (supporto aereo ravvicinato) ancora attualmente disponibili – posizione resa ancora più rigida dopo che un B1 Lancer era restato coinvolto in un incidente di “fuoco amico” avvenuto in Afghanistan, proprio durante un operazione di supporto aereo.

L’esercito del Califfo si è rivelato più resistente di quanto si credeva e i soldati iracheni meno capaci di difendersi – su questo non c’è dubbio. Obama, al centro di polemiche con i servizi segreti su possibili valutazioni errate e disattenzioni, che ruotano proprio attorno alla stima sul potenziale del Califfo e su quello di risposta di Baghdad – polemiche per altro che la Cia rimbalza, accusando il presidente di non aver ascoltato – per il momento sembra non avere la minima intenzione di mettere i “boots on the ground”. Ma chissà se alla fine cederà.

Mercoledì, il presidente turco Erdogan, ha esposto al Parlamento l’intenzione di muovere il suo paese contro l’IS al confine turco con Siria e Iraq, avvisando che intervenire «solo per gettare bombe significherebbe perseguire obiettivi temporanei e fallire». Serve sporcarsi gli scarponi, insomma, in piano che secondo Ankara prevede sia di sconfiggere il Califfo, sia di rovesciare il regime di Assad. Un impegno importate e a lungo termine, che per Erdogan servirà a gettare le basi per «un nuovo approccio a una regione che sta cambiando dopo cento anni».

Dunque la Turchia, nelle intenzioni del presidente, non si prepara semplicemente a seguire la coalizione internazionale, ma cerca di spostarne gli equilibri verso una sorta di “soluzione turca” della crisi regionale.

Vedremo se Ankara avrà il peso sufficiente per convincere gli alleati su una nuova (e lunga) missione terrestre – e se i movimenti che si registrano dalle basi americane non siano un già un’indicazione in tal senso.

@danemblog

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