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Contro il virus Ebola serve una Nato della Salute?

L’epidemia di ebola in Africa occidentale non è soltanto finora costata la vita a migliaia di persone, ma “ha dimostrato la necessità impellente di un nuovo corpo internazionale” che risponda a queste crisi in modo rapido, efficiente, efficace, ma soprattutto organizzato. Una sorta di “NATO della salute“.

UNA STRATEGIA GLOBALE

Per Jack Chow – già ambasciatore americano per la Salute globale e l’Hiv/Aids e vice direttore generale dell’Organizzazione mondiale della Sanità su Hiv/Aids, tubercolosi e malaria, oggi docente di sanità pubblica presso l’Heinz College della Carnegie Mellon University – questa rappresenterebbe la risposta a un problema già esistente e che il virus che oggi spaventa il mondo ha solo contribuito a far emergere in tutta la sua forza.
Né il gruppo dei Paesi industrializzati che offre aiuto sanitario ai più poveri, come quelli del G7, né organismi internazionali come l’Oms sono in possesso di un battaglione con un team qualificato di assistenza sanitaria, attrezzatura protettiva e ampia fornitura di medicinali“, rileva Chow in un’analisi su Foreign Policy.

COSA DEVE CAMBIARE

Questa “NATO medica”, per così dire, chiamata di fatto a supplire le lacune dell’Oms, consisterebbe in una coalizione di Stati che potrebbero reclutare squadre speciali – composte da medici, infermieri ed altre professionalità – dai propri organismi e sistemi sanitari nazionali. Proprio come l’Alleanza atlantica, i Paesi dovrebbero per Chow “nominare un medico in capo ed elaborare congiuntamente piani operativi e condurre esercitazioni di prova“, secondo modelli e protocolli già collaudati come quelli delle Forze di Pace delle Nazioni Unite che consentano di intervenire in caso di epidemie e poi ritirarsi. A frenare la definizione di un progetto come questo, spiega l’esperto, ci sono soprattutto le resistenze di Stati preoccupati di cedere la propria sovranità in tema di emergenze sanitarie a forze sovranazionali che potrebbero generare più problemi di quanti ne risolvano. Ma in un mondo globalizzato, ha ancora senso definire strategie locali?

SCARSA CONSAPEVOLEZZA?

Forse la risposta risiede in una sottovalutazione del problema. Sebbene anche Barack Obama l’abbia definito “una minaccia mondiale“, ebola non preoccupa in modo eccessivo esperti e organizzazioni internazionali che lo considerano sotto controllo. O peggio, come sottolinea preoccupato sulla Nbc il luminare statunitense della bioetica Arthur Caplan, lo ritengono un grattacapo lontano, quindi non riguardante il mondo occidentale.
Per contrastare la diffusione del virus l’Unione europea ha stanziato forse tardivamente 150 milioni di euro, mentre il presidente americano ha annunciato che gli Usa invieranno 3mila militari nelle zone colpite e distribuiranno in collaborazione con l’Unicef dei kit di protezione destinati a 400mila famiglie più vulnerabili.

UN BILANCIO DRAMMATICO

Ma ebola, dicono i dati, è più pericoloso che mai e nonostante gli sforzi per tenerne sotto controllo la diffusione, il bilancio continua ad aggravarsi. Secondo l’ultimo bollettino dell’Oms, il virus ha causato la morte di circa 3.340 persone sugli oltre 7.175 casi registrati in 5 paesi – Sierra Leone, Guinea, Liberia, Nigeria, Senegal – la metà dei quali solo nei confini di Monrovia.

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