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Ebola visto da vicino. Testimonianze di malati, medici e sopravvissuti

Oggi è il giorno peggiore dell’epidemia Ebola in Sierra Leone. In 24 ore sono morti 121 persone. Secondo l’ultimo rapporto dell’Organizzazione mondiale della salute (Oms), ogni giorno in media 100 persone sono contagiate dal virus e più del 50% muore.

Quello che esaurisce la speranza dei malati di Ebola è non sapere, fino alla fine, cosa hanno. I sintomi si presentano velocemente: mal di testa e di schiena, diarrea, vomito. Subito dopo l’emorragia. Ma potrebbe essere malaria, febbre gialla.

POCA INFORMAZIONE, PIÙ RISCHI

In sei mesi circa 5mila persone sono state contagiate da Ebola nell’Africa Occidentale, più della metà nelle ultime tre settimane. Medici Senza Frontiera racconta sul sito web e i media internazionali come il personale sanitario è costretto a rifiutare paziente perché non ci sono posti per ricoverare tutti.

Un malato di Ebola in Guinea – che ha preferito rimanere nell’anonimato – ha raccontato alla Bbc che quanto è arrivato all’ambulatorio del suo villaggio gli avevano diagnosticato la malaria. Solo quando è arrivato ad un ospedale a Conakry hanno capito che si trattava di Ebola: “Mi sono depresso molto. Avevo sentito della malattia ma sapevo poco. Quando i dottori mi hanno parlato mi sono spaventato”.

LA PAURA DEL CONTAGIO

“Chi ha toccato? Con chi ha avuto contatti? Ha pulito tutti gli strumenti che ha maneggiato? Quante volte si è disinfettato le mani?”. Ogni giorno il personale medico che lotta contro l’Ebola in Africa deve fare fronte a queste domande. Il nemico è invisibilE. Rosmarie Jah, medico tedesca di Unicef a Freetown, la capitale di Sierra LeonE, racconta nel suo blog come si vive “nella zona della morte”. “Qui paura, sollievo, speranza, tristezza, vita e morte vanno mano nella mano”. La sua testimonianza è quella di molti cooperanti delle organizzazioni di salute mondiali, colpiti dai tagli della crisi economica.

FELICI DI AIUTARE

Rosamie Jah è di origine tedesca e quando è cominciata l’epidemia in Sierra Leone ha pensato di tornare a casa: “Avevo paura del contagio, ma ho sentito che molti bambini qui hanno bisogno del nostro aiuto. .. Proteggere un bambino di Ebola mi dà una profonda sensazione di felicità”, ha scritto sul blog.

Ecco un tweet dell’account @RosyJah di Rosamie Jah:

I cooperanti di Unicef in Sierra Leone forniscono disinfettanti, medicamenti e maschere alla popolazione. “Andiamo di casa in casa e spieghiamo alle famiglie come devono proteggersi per evitare il contagio”, racconta Rosamie Jah. Si occupano anche di 3700 bambini che sono rimasti orfani perché i genitori sono morti di Ebola.

BUONI MOTIVI PER PIANGERE

L’antropologo belga, Pierre Trbovic, è arrivato in Liberia ad agosto e racconta la sua esperienza attraverso il sito di Medici Senza Frontiere. Ha spiegato che “vestirsi con l’abbigliamento protetto può richiedere 15 minuti e, una volta dentro, puoi trascorrere solo un’ora prima di sudare. Non si può restare di più perché è pericoloso. I pazienti stanno molto male e il lavoro nelle tende è tanto… bisogna pulire gli escrementi, il sangue e il vomito, trasportare i cadaveri”. Nonostante ci sono alcuni vaccini esperimentali, al momento la prevenzione è l’unico antidoto contro Ebola.

In un articolo pubblicato dal Guardian Trbovic ha detto che ogni volta che un paziente si riprende si fa una breve cerimonia: “Ci si riunisce per festeggiare questo momento eccezionale. In un’occasione ho ascoltato le parole di un paziente che è stato dimesso, ci ringraziava per tutto quello che abbiamo fatto. Mi sono guardato intorno e ho visto i miei colleghi in lacrimi. Ho capito che ci sono buoni motivi per restare e anche per piangere”.

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