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Perché l’articolo 18 non è fondamentale nella riforma del lavoro

La proposta di introduzione del contratto a tutele crescenti, nel quadro della riforma dei rapporti di lavoro, è stata investita da una tempesta di polemiche in relazione al superamento dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, tema sensibile per eccellenza, mostro sacro delle lotte sindacali e del dibattito tra culture liberali e socialiste, come era avvenuto poco più di un decennio fa, ai tempi della legge Biagi. E oggi, come allora, sono state alzate di nuovo le barricate. Non più tra destra e sinistra, ma tra sinistra e sinistra (ma Renzi è davvero una “sinistra”?).

Ogni volta che l’art. 18 viene messo in discussione, diventa regolarmente l’ultima trincea ideologica di una certa cultura di sinistra e ora anche della minoranza interna del Pd, ansiosa di recuperare visibilità e fiducia nel proprio elettorato tradizionale che non ha mai digerito fino in fondo l’ascesa alla leadership del giovane rottamatore fiorentino. La “reintegra” nel posto di lavoro del lavoratore licenziato viene di nuovo eretta a totem ideologico, bandiera di antiche e gloriose battaglie sindacali, simbolo che non si può accantonare. E anche da parte di chi contesta l’istituto della reintegra si tende sovente a replicare con altrettanta rigidità.

L’errore di fondo, oggi come in passato, si ravvisa nella riluttanza ad affrontare il tema senza pregiudizi e senza barriere e simbolismi ideologici, mirando soltanto all’effetto che si intende realizzare, cioè l’incremento dell’occupazione, incentivando assunzioni ed investimenti produttivi, in una fase di riduzione di competitività e di elevata mortalità di imprese. Già durante il governo Monti fu approvata una modifica dell’art. 18, su proposta dell’allora ministro Fornero, che cercava di contemperare le garanzie del lavoratore con le esigenze di flessibilità. Naturalmente, qualsiasi riforma è perfettibile, soprattutto quelle varate tra i fuochi incrociati di interessi contrapposti e scontri politici molto accesi. In questi casi una riforma si identifica necessariamente nella risultante di un compromesso, di un equilibrio delicatissimo.

Il testo della riforma Fornero (legge 92/2012) sui licenziamenti presenta caratteri di ambivalenza e provoca certamente qualche difficoltà di interpretazione, lasciando vuoti di certezza giuridica e margini di discrezionalità che alimentano le contestazioni. Ma introduce anche innovazioni apprezzabili. Trattandosi di una normativa piuttosto recente, non è stata peraltro ancora monitorata, in pieno, nei suoi effetti e forse, prima di proporne la modifica, sarebbe stato opportuno attendere il riscontro dei risultati conseguiti.

Premessa la pacifica condivisione della reintegra nel caso di licenziamento discriminatorio, può apparire ragionevole lasciare al giudice la facoltà di scegliere tra reintegrazione con risarcimento e indennità risarcitoria in caso accerti l’insussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di un licenziamento disciplinare. E si può ritenere che la reintegra costituisca il giusto e appropriato rimedio nella circostanza di maggiore gravità, ossia quando il giudice accerti la totale insussistenza del fatto contestato al lavoratore e addotto quale motivo del licenziamento disciplinare. In questo caso il lavoratore ha subìto un vero e proprio sopruso, talora anche infamante, deve dunque essere ricollocato in quel posto di lavoro sottratto in virtù di una falsa accusa.

Nelle ipotesi, invece, meno gravi di licenziamento disciplinare illegittimo, cioè quando il giudice accerti che il fatto contestato sia stato effettivamente commesso dal dipendente, ma potesse essere sanzionato dal datore di lavoro con provvedimento più lieve del licenziamento, si potrebbe prevedere soltanto un’indennità risarcitoria a favore del lavoratore.

La migliore soluzione, per evitare incertezze e eccessive discrezionalità, si ravvisa forse, come ha rilevato lo stesso premier Renzi, nell’indicazione tassativa delle ipotesi in cui sia prevista la reintegrazione nel posto di lavoro, a seguito di licenziamento disciplinare. La terza tipologia prevista dalla legge Fornero è quella del licenziamento economico, legato cioè a motivi inerenti all’attività produttiva o a una contrazione di mercato che rendano necessaria una riduzione del personale (giustificato motivo oggettivo).

Si tratta di una forma di licenziamento meno diffusa di quello disciplinare, per il quale la legge prevede la reintegra solo quando l’estromissione del lavoratore si riveli “manifestamente infondata”, mentre negli altri casi di difetto dei requisiti che integrano il giustificato motivo economico si limita a disporre il versamento di un’indennità risarcitoria. Il licenziamento economico, così come disciplinato dalla vigente normativa, presenta una certa labilità sotto il profilo della certezza del diritto e può prestarsi ad una difficoltà e diversità di interpretazione.

In una congiuntura economica critica, come quella che sta attraversando il nostro Paese, la distinzione tra una motivazione “manifestamente infondata” e una carenza di giustificazione oggettiva non sempre appare semplice per l’organo giudicante, così come una valutazione delle potenzialità di competizione dell’impresa sul mercato, nella congiuntura data. Una soluzione equilibrata alla controversia sull’art. 18 dovrebbe colpire, con la reintegra, il mero arbitrio, ovvero la motivazione dissimulata (ad esempio, quando un licenziamento disciplinare celi, in realtà, una ragione economica, o un intento discriminatorio) e prevedere l’indennità risarcitoria nei casi in cui, pur senza sconfinare nell’intento velleitario o persecutorio ed essendo fondato su ragioni apprezzabili, l’atto di licenziamento si riveli comunque carente di giustificato motivo.

In base a questo criterio la legislazione vigente può essere migliorata, in termini di equità, chiarezza e flessibilità, in ordine al licenziamento disciplinare e a quello economico. Ma le statistiche ci dicono che i ricorsi dei lavoratori licenziati non si rivelano poi così frequenti, spesso prevale l’ipotesi di accordo. Forse la lente riformatrice del jobs act dovrebbe concentrarsi su altri aspetti, su altri strumenti di tutela, più efficaci ed avanzati. Lo Stato, più che della reintegrazione nel vecchio posto di lavoro, dovrebbe preoccuparsi del reinserimento del lavoratore nel mercato del lavoro. Il lavoratore licenziato oggi è solo, abbandonato a se stesso, non ha nessuno cui rivolgersi per essere fattivamente aiutato a riconvertirsi. Occorre potenziare i servizi di riqualificazione, di formazione (quella efficace, però!), di informazione e di orientamento! Realizzare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, fornire insomma, al lavoratore, ogni strumento utile a una adeguata ricollocazione.

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