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Snam, Terna e Ansaldo. Tutti gli affari cinesi in Italia che fanno gioire Renzi

Il bilancio delle privatizzazioni non può dirsi né completo né soddisfacente, specie rispetto alle ambizioni fatte trapelare dagli ultimi due esecutivi. Al problema delle casse statali si aggiunge infatti il dilemma di una disorganicità di fondo dell’azione governativa, dove le cessioni effettuate dalla Cassa Depositi e Prestiti vanno lette in controluce con l’assetto geopolitico in rapido rivolgimento dei nostri tempi. Il dato di cronaca è, ovviamente, la cessione del 35% di CDP Reti, scrigno societario che controlla Terna e Snam, ai cinesi di China State Grid.

La campagna acquisti di Pechino in Italia è senza dubbio balzata agli onori delle cronache per la centralità delle quote azionarie finite nel paniere cinese. Non più o non solo marchi della moda o produzioni alimentari di nicchia – cifra di una enorme classe media in rapida ascesa affamata di estetica e leccornie – ma energia e telecomunicazioni: Enel, Eni, Ansaldo Energia, Terna, Telecom e Prysmian. In Italia lo shopping tra le società statali è favorito dal contesto problematico dei conti pubblici, dalla inesperienza dell’attuale classe politica e dalla sua estrema volatilità, mentre per gli operatori privati è la stessa quotazione in borsa a favorirne la contendibilità.

Da un lato, se si richiama lo stillicidio di acquisizioni azionarie del Dragone tra cui ENI, ENEL e si considerano le offerte avanzate per le Ansaldo e un possibile interesse per SAIPEM, si ha il quadro di una cessione generalizzata di know-how tricolore alla Cina. Uno scenario, questo, che fa scopa con la disciplina sulla contendibilità degli asset sensibili – la cosiddetta golden power – che si rivela alquanto cervellotica quando i barbari sono alle porte, tanto che finora se ne conta un’unica applicazione. Salvo poi svaporare, gassosa, una volta che l’acquisizione si è verificata.

Come la formula nuziale “parli ora o taccia per sempre”, così anche la golden power si rivela una protezione effimera in cui le regole per la tutela delle attività strategiche tricolore si riducono a una verifica una tantum, per giunta effettuata a tavolino quando ancora l’operazione non è che una pila di atti nello studio di un notaio e quando non vi sono ancora riscontri tangibili del nuovo corso impresso dalla proprietà straniera. Eppure mai come nell’epoca delle reti intelligenti bastano piccoli passi a segnare alterazioni profonde. Basta un nuovo fornitore e di colpo ecco uno switch diverso, un componente dalle dimensioni risibili che equivale a praterie sconfinate che si aprono.

Una acquisizione dopo l’altra, il capitalismo autoritario cinese ha guadagnato nel salotto della finanza italiana un ruolo di primo piano, e l’ingresso nelle reti elettriche e nel gas italiane costituiscono il simbolico timbro di ingresso nei reticolati pan-europei. Difficile azzardare paragoni con i partner statali del recente passato. Come i libici, presenza abituale e massiccia di un capitalismo di stato non democratico legata a filo doppio alla politica estera democristiana della Prima Repubblica. Quello con i libici era con ogni probabilità un legame che garantiva anche Washington sulla effettiva capacità dell’alleato italiano di tenere canali di dialogo con la polveriera nordafricana e le sue complessità. Per contro, il rapporto di Roma con la Cina è un quadrante ancora ampiamente inesplorato, che tuttavia lascia presagire una significativa disparità negoziale.

Dall’altra parte l’avvento del Dragone non fa che confermare l’immagine di weak link, anello debole, che contraddistingue l’Italia nel più ampio contesto occidentale. Nel Belpaese, va detto, non scarseggiano le spie di allarme: investimenti cinesi, solidi legami con i russi, cronica dipendenza energetica, sbarchi di clandestini, conti pubblici in disordine, struttura demografica senescente. Da vent’anni almeno, d’altra parte, le cronache registrano l’assenza di una classe politica forte, capace di ragionare sulle proprie priorità, talora anche in maniera cinica e controversa. La quotidianità, si sa, è il regno dell’improvvisazione al potere, dei tweet e degli hashtag, e pazienza se dai Consigli dei Ministri escano soprattutto slides colorate e, con ritardi imbarazzanti, decreti emergenziali privi di una vertebrazione strategica.

È lontanissima l’era degli Andreotti e dei Geronzi, capaci di accogliere i libici nel sancta sanctorum dell’industria e della finanza della prima repubblica nonostante l’appartenenza dell’Italia alla filiera transatlantica. Altrettanto remota è la generazione di Cuccia, che strinse un patto d’acciaio con l’aristocrazia finanziaria dei Lazard. Scricchiola, dopo lunghi anni, l’architettura chiusa della finanza italiana, dove il terzo debito pubblico al mondo vedeva nelle banche domestiche il proprio maggiore sottoscrittore sotto la regìa politica delle fondazioni bancarie. Scricchiola, senza che all’orizzonte si manifesti un cavaliere bianco: quello di Geronzi si sarebbe presentato a dorso di dromedario ma pronto a districarsi negli arabeschi della finanza italiana, sui cinesi meglio non proiettare aspettative surreali. Scricchiola, soprattutto, senza che nemmeno si sia pensato a coagulare in qualche maniera il vulgo disperso delle casse previdenziali e dei fondi pensione domestici. I quali di miliardi di euro ne hanno, e se il governo avesse voluto si sarebbero accomodati eccome, nell’azionariato di CDP Reti, magari in compagnia di qualche investitore istituzionale canadese o australiano.

Francesco Galietti, fondatore dell’osservatorio di rischio politico Policy Sonar

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