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Cossiga, la Guerra Fredda e l’intelligence

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Ripensare al lungo, lunghissimo dialogo tra Francesco Cossiga e chi scrive, è oggi per me ma, credo, per i lettori, sommamente utile.

Soprattutto perché, se è vero che, platonicamente, sapere è ricordare, è anche vero che la Storia, che Francesco conosceva perfettamente, è la chiave di ogni valutazione (e azione) politica.

Per Cossiga, e anche oggi ritengo vero questo assunto, la guerra fredda fu vera guerra.

Ovvero, uno scontro a bassa, bassissima intensità nei principali Paesi dell’Occidente e dell’Oriente sovietico, che si delineava duramente però nelle tante, allora, periferie degli Imperi, dove era “calda” perché, appunto, non vi erano interessi così forti da tutelare: niente impianti e infrastrutture primarie da prendere al Nemico, nessuna popolazione civilizzata e atta al lavoro da utilizzare, nessuna postazione militare di elevato potenziale tecnologico.

Qui la guerra “calda” ritrovava i propri criteri ottocenteschi, senza il rischio nucleare che aveva modificato l’equilibrio diretto tra i due Imperi primari.

Non a caso, per Cossiga, il punto di svolta fu proprio la guerra del Vietnam, il tentativo sino-russo di chiudere gli USA sul Pacifico meridionale, nel quadrante di primissimo piano del Giappone (e di Taiwan) e di controllare, tramite la penisola indocinese “rossa”, il choke point di Malacca, l’asse geoeconomico e strategico, ieri come oggi, del Pacifico Meridionale.

Mi ricordo bene come Francesco studiasse con attenzione estrema la questione vietnamita, perché era la prima volta, con la guerra tra USA-Vietnam Meridionale e la guerriglia non-clausewitinana di Vo Nguyen Giap e di Ho Chi Minh, che la “guerra delle idee” e il pacifismo sessantottardo diventavano armi globali di una nuova guerra psicologica.

In Italia, però, la guerra fredda fu anche guerra interna e, perfino, in qualche fase, dall’immediato secondo dopoguerra devastante scontro sociale.

Francesco amava ripetere che non c’era una soluzione di continuità tra le tensioni degli anni ’50 e, poi, agli inizi dei ’70, con la rivoluzione bolscevica strisciante portata avanti dal terrorismo rosso.

C’era, invece, secondo Cossiga, una lunga catena di destabilizzazione lenta, lentissima, che implicava una attenta valutazione di ogni mossa, politica, economica, strategica.

Poco si interessava di “strategia della tensione”, termine da giornalisti poco fantasiosi: Cossiga sapeva bene che gli Stati deboli sono fragili, e che la tutela dell’integrità e della stabilità italiana era un valore primario per l’Alleanza Atlantica.

Era qui l’atlantismo di Francesco: l’ancoraggio dell’Italia, con fedeltà assoluta e intelligenza critica, al Patto Atlantico e al sistema occidentale, anche scontrandosi con le tentazioni neutraliste di buona parte della Chiesa, della DC dossettiana, perfino di un vecchio mondo liberale che, con Benedetto Croce, giudicava “iniquo” il Trattato di Pace.

L’Atlantismo, per Cossiga, era il permesso all’Italia di muoversi con razionalità strategica in tutto l’equilibrio mediterraneo.

Mai, da questo punto di vista, ci fu tensione tra Aldo Moro e Cossiga, che qui, come altrove, si mostrava come l’allievo più fedele dello statista cattolico pugliese.

Anche il “compromesso storico” o le fin troppo derise “convergenze parallele” erano, nella filosofia di Moro e, anche, nella linea politica di Francesco, l’applicazione del modello di integrazione delle sinistre che aveva funzionato così bene con i socialisti, fin dal primo governo di “centrosinistra organico” del 1963, presieduto proprio, e non era certo un caso, dallo stesso Moro.

Ecco perché Francesco aprì all’ex-PCI dopo la caduta del Muro di Berlino: sapeva bene che, fuori dalla correlazione strategica tra Botteghe Oscure e Mosca, si apriva uno spazio, “atlantico”, di integrazione di nuove forze politiche dentro il quadro democratico, liberale, occidentale.

Ma Cossiga sapeva benissimo che questo processo doveva essere guidato, doveva portare gli orfani del Komintern, con attenta progressione, in un processo trasformativo radicale, che in quegli anni era appena iniziato e doveva (e forse lo deve ancora oggi) essere completato da chi l’Occidente e la Democrazia liberale li conosceva già benissimo.

Quindi, mi ricordo ora benissimo come Francesco Cossiga intendeva l’intelligence: con dentromolti banchieri e professionisti-manager, pochi militari ma, quei pochi, di eccelso livello culturale e professionale e molti, moltissimi, uomini di cultura e gente capace di fare guerra psicologica, guerra “culturale”, strategia globale per l’Italia, prima di tutto, e poi per gli Alleati storici del nostro Paese.

Per Cossiga, me lo ricordo come se fosse ieri, la caduta del Muro di Berlino era tattica, non strategia.

Allora si sapeva poco del ruolo avuto dall’intelligence sovietica nella trasformazione che porterà l’URSS a implodere, insieme al PCUS distrutto, in pochissimi anni, ma era come se Francesco lo supponesse e, ancora, occorreva quindi lavorare ancora ai fianchi le sinistre italiane eredi del mito della Terza Internazionale, per stabilizzare definitivamente l’Italia e occidentalizzarla integralmente.

Per Francesco, il Servizio non era una parte separata della élite politica, economica e intellettuale, ma era quella stessa élite quando si coordina verso un obiettivo rilevante, verso un obiettivo, si direbbe oggi, “di sistema”.

Francesco era affascinato dallo stile intellettuale e dalle carriere atipiche di tanti capi dei Servizi USA e Britannici, da Wall Street alle “Operazioni”, dai corridoi dell’All Souls College di Oxford, che ben conosceva, alle “missioni” dei grecisti e latinisti e degli storici in tutto il British Empire, dopo che un signore, o il tuo stesso professore, ti ha chiesto semplicemente se “vuoi lavorare per il tuo Paese”.

Oggi, sia a causa della Riforma del 2007, che ha creato le nuove Agenzie e ha costruito un ruolo preminente per il DIS, Dipartimento Informazioni per la Sicurezza, sia a causa della disperata inefficienza strategica delle nostre classi politiche, sembra che le Agenzie siano diventate una sorta di Master di Secondo Livello in Politica Estera per statisti raccolti quasi per caso.

Certo, la riqualificazione del “politico da strada” è un dato essenziale, la ottima idea dei roadshow nelle migliori università dei Dirigenti delle Agenzie è un metodo ottimo per richiamare ad una nuova cultura dell’intelligence i cittadini e i media, ma, per come mi ricordo le osservazioni di Francesco al riguardo, occorreva che i Servizi (di allora) si elevassero ad un livello culturale e strategico molto migliore di quanto fosse (allora) disponibile, per potere talvolta forzare la mano ad una classe politica poco adatta a pensare in termini di Strategia Globale.

Il Servizio era, per Cossiga, al servizio solo e unicamente dello Stato, non di questa o quella classe politica, e certe attività autonome di alcuni leaders politici, democristiani e non, gli facevano orrore.

Mi sovviene ancora di come, dato che Cossiga parlava meglio il tedesco dell’inglese, litigò con Kohl, il democristiano Kohl, per come si stava prospettando l’entrata dell’Italia nella moneta unica europea.

Gliene ho dette quattro, a Helmut!” sbottò una volta con me, e il motivo era chiaro: Francesco capiva perfettamente che l’entrata dell’Italia nell’Euro era, allora come oggi inevitabile, ma che non si dovesse in nessun modo mantenere una posizione punitiva nei riguardi dell’Italia: i soldi di un debito pubblico già allora eccessivo, ma forse ancora controllabile, erano serviti a fare un Welfare State che aveva agganciato alla Democrazia Liberale vastissime masse che, altrimenti, sarebbero cadute nella rete del Miraggio Rosso.

E, lo ripeto, per Cossiga l’asse della geopolitica italiana era, e rimaneva, il Mediterraneo, che era il Mare Nostrum ma anche il Mare Vestrum: il grande mare degli Europei uniti e amici dell’America e di Israele, lo Stato che Francesco vedeva come l’asse naturale della politica mediterranea nel nostro quadrante marittimo.

Questo non voleva dire che non esistesse una politica “araba” per Cossiga: il problema era che, nel pensiero di Francesco, il mondo arabo, prima dell’incendio jihadista, che lui vide come definitivo, doveva emanciparsi da una logica di terzietà strategica verso USA e ex-URSS, e divenire un alleato stabile dei Paesi consumatori di petrolio, oltre a fare da cuscinetto strategico tra il mondo indiano, l’Asia Centrale, la Cina e tutto l’asse del Mediterraneo.

Era questo il senso di un progetto globale di pace tra Israele e i Paesi Arabi, per Cossiga.

Inutile aggiungere che le polemiche, interne ai nostri Servizi, tra assi filoarabi e il legame con USA e Stato Ebraico erano ben poco rilevanti nella mente di Cossiga.

L’Europa, con tutti i suoi difetti, allora c’era, e Dio solo sa quanto è stata importante nell’equilibrio di forze postsovietico, e oggi è fin troppo facile polemizzare con la faciloneria di chi ha integrato nella UE e addirittura nell’area Euro Paesi che uscivano dalla miseria del COMECON e del Patto di Varsavia, ma basta pensare a cosa sarebbe successo con scelte opposte, per eliminare ogni dubbio.

Per Francesco, poi, ed era un refrain dei suoi ultimi anni, “l’Europa non c’era più, oggi c’è solo il Fondo Monetario”.

Non si trattava di una mouvance antiglobalista in ritardo, Cossiga era un globalizzatore felice della Civiltà Euroatlantica e Occidentale, ma osservava con fastidio l’integrazione “servile” della economia europea a meccanismi cicli economici e monetari, a criteri di divisione mondiale del lavoro che non facevano bene all’Europa, alla Europa necessaria che lui amava, e che riteneva l’asse della futura civilizzazione globale, di cui nessuno poteva prevedere, ieri ma anche oggi, gli sviluppi, che sono scritti, per dirla con Huizinga, nelle ombre del domani.

Gli piaceva ricordare Toynbee e quella passione storica, tutta britannica, di parlare per “civilizzazioni” e “universi culturali” e, d’altra parte, Toynbee era stato tra i “maestri di color che sanno” nell’intelligence britannica.

Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa”

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