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Attualità del (vero) Concilio Vaticano II. Note a margine della beatificazione di Paolo VI

La beatificazione di Paolo VI a conclusione del Sinodo straordinario sulla famiglia, è un fatto importante per due motivi. Primo, perché finalmente rende giustizia a papa Montini il cui pontificato fu duramente criticato (e lo è tuttora in diversi ambienti ecclesiali che non gli hanno mai perdonato l’Humanae Vitae) dentro e fuori la chiesa, quando invece seppe tenere la barra dritta con lungimiranza e spirito profetico in uno dei momenti più difficili della bimillenaria storia ecclesiale. Secondo, perché se è vero che la beatificazione di Paolo VI (come già la canonizzazione di Roncalli e Wojtyla, anzi in questi casi in misura ancor maggiore) non autorizza nessuno ad estendere in automatico un giudizio altrettanto definitivo sul Vaticano II, quasi che si potesse applicare la proprietà transitiva tra due fatti – il pontificato di papa Montini e il Concilio – di per sé diversi, è altrettanto vero che l’occasione consente di riflettere nuovamente sul significato di un Concilio che, come anche le cronache del Sinodo e il dibattito che l’ha preceduto hanno dimostrato, non cessa di far discutere. Il che, di per sé, non sarebbe necessariamente un male, anzi. Per chi abbia cura di non applicare alle vicende della fede categorie che poco o nulla hanno a che fare con essa, più il Vaticano emerge come “segno di contraddizione”, più si conferma la sua impronta divina. Resta il fatto che entrambe le letture prevalenti, quella tradizionalista che lo vede come un evento di rottura rispetto alla “vera” chiesa – con ciò intendendo quella tridentina – e quella progressista che, all’opposto, lo interpreta anch’essa come discontinuità ma in questo caso positivamente intesa come apertura alla modernità, peccano di miopia. Da parte tradizionalista, l’occasione per rintuzzare una polemica mai sopita contro il Vaticano II è stata l’elezione di papa Bergoglio. Il cui pontificato è stato, ed è tuttora solo in apparenza il bersaglio degli strali tradizionalisti, quando è di tutta evidenza come il bersaglio grosso sia proprio, e primariamente il Vaticano II. Secondo la critica tradizionalista le perplessità, i mal di pancia, l’inarcarsi delle sopracciglia di più d’un fedele sono riconducibili – al netto del fattore umano che pure ha il suo peso, anche su un papa – ad una scelta di fondo di Francesco, quella cioè di privilegiare, soprattutto nel rapporto con il mondo, un approccio pastorale anziché dottrinale. Insomma questa papa non piace, ed anzi ad alcuni dispiace proprio (e non è da escludere che ci sia pure chi, per ora tacitamente, nutra un vero e proprio sospetto di eresia) perché a differenza del suo predecessore che martellava, pur con tono suadente e stile raffinatissimo, non solo sui cosiddetti “valori non negoziabili” ma in generale sulle questioni teologiche di fondo, Papa Francesco, al contrario, del magistero inteso come riproposizione ai fedeli del Depositum Fidei se ne infischierebbe altamente per privilegiare, in primis, la prassi, l’azione: laddove Benedetto XVI insisteva sulla Veritas, Francesco sceglie la Caritas, cioè il mostrare, in ogni suo atteggiamento, il volto misericordioso di un Dio che, prima ancora che affermare ciò che è vero e ciò che non lo è, va incontro ad ogni uomo, donna, vecchio e bambino in qualsiasi condizione essi di trovino. Questo atteggiamento, oltre a generare spaesamento e confusione per uno stile giudicato fin troppo friendly per un papa, altro non sarebbe che l’esatta incarnazione del tanto vituperato “spirito” del Vaticano II, nella misura in cui sia il Concilio stesso, per espressa volontà di papa Giovanni XXIII, sia l’interpretazione di esso che storicamente ha prevalso, ovvero la cosiddetta “ermeneutica della discontinuità” della Scuola di Bologna di Giuseppe Alberigo, hanno sottolineato il carattere pastorale e non dogmatico del Concilio; ciò che costituisce, agli occhi dei tradizionalisti, il vizio di fondo, il peccato originale da cui poi è scaturito tutto il marcio che da cinquant’anni a questa parte imbratta e deturpa il volto della chiesa. Per Roberto de Mattei (Foglio del 12 novembre 2013) l’elezione di Papa Bergoglio sarebbe addirittura il suggello della vittoria della Scuola di Bologna, secondo la quale – contrariamente alla ratzingeriana “ermeneutica della riforma” che interpreta il Concilio nella linea di un rinnovamento nella e non contro la Tradizione – “la prassi si trasforma in dottrina”. Non più dunque primato della dottrina, e quindi della ragione, bensì primato della prassi, dell’esperienza, dell’azione e, quindi, del sentimento.
Papa Bergoglio, e con lui don Giussani e il movimento di Comunione e Liberazione, sarebbero insomma gli (inconsapevoli?) esponenti di un neo-modernismo, esploso soprattutto negli anni del post Concilio ma che parte da lontano e si sviluppa per de Mattei (Foglio del 26 novembre 2013) lungo l’asse Lutero-Sabatier-Blondel-Tyrrell-Bremond, che porta il nome di Nouvelle Theologie ed ha nel gesuita Henry de Lubac il teologo di punta.
Elementi portanti di questa teologia, che non a caso secondo de Mattei formano l’asse portante di CL, sono categorie quali “esperienza”, “incontro”, “avvenimento”, che i tradizionalisti vedono come il fumo (di satana) negli occhi in quanto portatori di una visione soggettivistica della fede. Al contrario, la fede è – scrive de Mattei – “l’adesione della ragione, mossa dalla grazia, alle verità rivelate da Dio, per l’autorità di Dio stesso che ce le rivela…La Sacra Scrittura e la Tradizione raccolgono queste verità, che formano la fede oggettiva e immutabile della chiesa…Crediamo queste verità perché ci sono rivelate da Dio. Ma l’esistenza di Dio, prima di essere una verità di fede, è verità filosofica, che può essere dimostrata dalla ragione…”. Per il tradizionalista de Mattei la vita cristiana, cattolica in particolare, è sostanzialmente ed essenzialmente esercizio di apologetica, “atto razionale che ha come oggetto la verità. L’intelletto è la sola facoltà spirituale che può far proprie le verità proposte dalla rivelazione.”. Diretta conseguenza di questa impostazione – che riduce il cristianesimo ad un insieme di verità immutabili alle quali l’uomo è chiamato ad aderire – è una visione della liturgia per cui “L’amore per la liturgia tradizionale – scrive de Mattei – presuppone necessariamente l’amore per le verità tradizionali”. Dove ovviamente per liturgia tradizionale si intende quella tridentina, e null’altro.
Ora, se per un verso si capisce chiaramente come il Vaticano II e il rinnovamento liturgico, biblico ed ecclesiologico da esso promossi, prima ancora che le sue interpretazioni, non riscuota il plauso dei tradizionalisti, per altro verso sono di tutta evidenza i limiti oggettivi del tradizionalismo. Primo fra tutti il rifiuto, da un lato, della distinzione tra la Tradizione – cioè il Depositum Fidei, per sua natura immutabile – e le tradizioni, ovvero le forme storiche, quindi mutevoli, attraverso le quali la chiesa vive la fede nel corso della storia; dall’altro, nella contestuale identificazione di una, particolare tradizione – quella della chiesa tridentina o della Controriforma (termine per altro riduttivo: il Concilio di Trento è stato un momento controriformistico nel contesto di un più ampio movimento di riforma cattolica) – con “la” tradizione della chiesa. Il che a sua volta implica il rifiuto della e la contrapposizione alla modernità, o per lo meno a quella forma della modernità che storicamente si è affermata, e il cui volto – e su questo punto il tradizionalismo ha ragioni da vendere, con buona pace di certo mondo cattolico adulto e spensierato – ha assunto spesso e volentieri (e assume tuttora) i connotati dell’Anticristo. Da questo limite principale, che implica l’assunzione del tomismo neoscolastico quale unica teologia degna di questo nome, deriva l’altro, grande limite della visione tradizionalista, ovvero una concezione parziale della Rivelazione e, conseguentemente, della fede. Vista, la prima, come la manifestazione di un Dio che è innanzitutto Verità; e la seconda, conseguentemente, come adesione razionale dell’uomo alla Verità così rivelata. Un’ impostazione, lo ripetiamo, in sé certamente ortodossa, ma che non tiene conto del fatto che gli uomini cambiano al mutare delle epoche storiche. Come ha ben evidenziato Augusto Del Noce in rapporto alla metafisica (ma il discorso è lo stesso anche per la teologia) – “il pensare in rapporto all’attualità storica non è negare l’eternità dei problemi metafisici, ma riconoscerla nel loro senso vero. Perché l’esclusione del tema del progresso … è certamente ciò che caratterizza il pensiero metafisico …: ma perché quest’esclusione sia valida … occorre che anche per il pensiero metafisico sia valido un certo concetto di progresso non esprimibile altrimenti che come «esplicazione del virtuale». L’esclusione del progresso e dello storicismo non può avere altro senso se non quello dell’asserzione che il «problema metafisico è quello che nessun altro può aver risolto per me» e che quindi mi si presenta in termini sempre nuovi… Non ho davanti a me una sorta di elenco di problemi già risolti …: è al contrario nel processo personale di soluzione del problema metafisico, che riconosco nella mia tesi l’esplicazione di una “virtualità” di una affermazione già sostenuta in passato; ed è proprio in questa “esplicazione di una sua virtualità” che la tesi metafisica mi diventa “evidente”, liberandosi dalla sempre contingente forma che aveva assunto nelle sue formulazioni storiche” (tratto da A. Del Noce, Il problema dell’ateismo). Ma soprattutto, l’impostazione tradizionalista cozza in modo irriducibile con l’atteggiamento che Dio stesso, nella persona di Gesù di Nazareth, ha assunto nei confronti dell’uomo, atteggiamento riassunto in queste parole che per un cattolico sono, o dovrebbero essere, il miglior antidoto contro ogni ideologia, inclusa quella religiosa: “Non è l’uomo per il Sabato, ma il Sabato per l’uomo”. Allo stesso modo: non è l’uomo per la dottrina, ma la dottrina per l’uomo; non è l’uomo per la liturgia, ma la liturgia per l’uomo; non è l’uomo per la fede, ma la fede per l’uomo. E infine: non è l’uomo per Cristo, ma Cristo per l’uomo. Se la fede non ha a che fare con la persona tutta intera, con la sua esistenza concreta e storica, qui ed ora, e si riduce a conoscenza e culto svincolati dalla vita vera, quindi dall’esperienza, è ben poca cosa. Tanto più che nel cristianesimo la verità non è un concetto, ma una persona: “Io sono la via, la verità e la vita”, ha detto Gesù. E la fede, dice S. Paolo, viene dalla stoltezza della predicazione, cioè del kerygma, l’annuncio della Buona Notizia, il fatto sconvolgente e inaudito che un uomo, proprio quel Gesù di Nazareth torturato e morto in croce come un malfattore, da morto che era è tornato in vita, per sempre. E che quindi la morte, per la paura della quale l’uomo è schiavo del peccato, è stata sconfitta una volta per tutte, e che si può sperimentare già fin d’ora la vita eterna. Ora delle due l’una: o questo annuncio di salvezza si incarna nella vita di una persona in modo che possa convertirsi e cambiare vita, oppure, semplicemente, non serve a nulla. Insomma, se uno ti porge una fetta di torta decantandone le lodi, che cosa è meglio fare prima, assaggiarla o studiarne la ricetta e conoscere tutti gli ingredienti?
Non meno miope è la lettura del Concilio di stampo progressista. Anzi, se è fin troppo facile dimostrare come durante e dopo il Vaticano II ci siano stati sbandamenti, eccessi ed errori a livello liturgico, teologico, ecclesiologico e via dicendo, è altrettanto vero che gli errori ci furono non a causa del Concilio – come erroneamente sostiene la scuola tradizionalista – ma nonostante il Concilio e sulla base di una precisa interpretazione del Vaticano II, che poi è quella che storicamente ha prevalso, sviluppata in primis dalla Scuola di Bologna, che lo ha interpretato a mo’ di cesura col passato e apertura alla modernità; in ciò supportata da quello che, non a caso, Benedetto XVI parlando al clero di Roma il 14 febbraio 2013 ha definito il “Concilio virtuale”, cioè il concilio dei mezzi di comunicazione, addirittura più forte di quello reale, che “ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi.”. E’ sulla scia di questa lettura dell’evento conciliare – per altro sonoramente sconfessata da papa Francesco che ha definito mons. Agostino Marchetto, uno dei critici più severi dell’ermeneutica progressista, il “più grande ermeneuta del Vaticano II” – che più d’uno si è sentito autorizzato a vivere e pensare la chiesa come se il Concilio fosse l’anno zero, la fine del vecchio e l’inizio del nuovo, un nuovo in nome del quale si potevano (e forse si dovevano) mutuare acriticamente categorie, adottare forme e contenuti della modernità per stare finalmente al passo con i tempi. Emblematiche in tal senso le parole di Paolo VI durante l’Udienza generale del 18 settembre 1968, peraltro straordinariamente attuali: “Alcuni pensano che il Concilio sia già superato; e, non ritenendo di esso che la spinta riformatrice senza riguardo a ciò che quelle solenni assise della Chiesa hanno stabilito, vorrebbero andare oltre, prospettando non già riforme, ma rivolgimenti, che credono potere da sé autorizzare, e che giudicano tanto più geniali quanto meno conformi all’autorità e alla disciplina della Chiesa, ed ancora tanto più plausibili quanto meno differenziati dalla mentalità e dal costume del secolo”. Ed è così che nacque il Vaticano secondo…me, secondo te, secondo noi…I risultati li conosciamo bene: crisi delle vocazioni e seminari svuotati, crisi del sacerdozio e conseguente abbandono dello stato clericale da parte di tantissimi preti, alcuni dei quali – per stare vicino al popolo – smisero la talare per andare in fabbrica (sul punto, sarebbe interessante sapere quanti, dopo aver lasciato il sacerdozio, sono rimasti a fare l’operaio..), bizzarrie e amenità liturgiche di vario genere (messe beat ecc.), smottamenti in campo dottrinale (si pensi alle varie teologie della liberazione e, più in generale, al tentativo, teorico e pratico, di tenere insieme Cristo e Marx, che in ambito politico è sfociato nel cattocomunismo) e morale – esemplare, in tal senso, la battaglia contro l’Humanae Vitae di Paolo VI; e ancora, crisi del principio di autorità (le cui conseguenze, ad esempio nel campo educativo con l’esperienza di don Milani, sono sotto gli occhi di tutti). L’elenco potrebbe continuare a lungo. Fatti e misfatti che hanno, per contro, confortato i critici da destra del Concilio, che hanno avuto buon gioco nel prendersela direttamente con il Vaticano II, visto come la causa remota di tutti i mali. Ma un conto è denunciare e correggere gli errori, altro contro è buttare il bambino con l’acqua sporca, come fa de Mattei e con lui tutti i nostalgici dei (presunti) bei tempi andati, convinti che sia sufficiente riportare le lancette dell’orologio alla chiesa pre-conciliare, affinché l’uomo contemporaneo, sazio e disperato (copyright card. Biffi), possa innamorarsi di Cristo con la messa tridentina (in latino, che la gente non capisce), il catechismo di S. Pio X (intellettualistico e nozionistico, per nulla biblico ed esistenziale), la pastorale sacramentale (che presuppone una fede che spesso non c’è più) e tutto l’armamentario delle pratiche di pietà (anche qui, ci vuole fede) e di una morale casuistica lontana anni luce. O chi, partendo da una prospettiva opposta, vagheggia addirittura un Vaticano III per riprendere e sviluppare le istanze riformatrici del Vaticano II, tradite dai pontificati di Paolo VI e soprattutto di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Il Vaticano II, checché ne dicano i detrattori tanto da destra quanto da sinistra, conserva intatta la sua validità, oggi come allora, anzi oggi più di allora, vista la situazione della chiesa e del mondo, a riprova della lungimiranza profetica di Papa Giovanni XXIII e dei padri conciliari. Il Concilio è stato un evento straordinario dove lo Spirito ha parlato alla Chiesa suscitando, nonostante i limiti e le debolezze dei suoi membri, un’azione di rinnovamento nella e non contro la tradizione – come ha sottolineato Benedetto XVI nell’ormai celebre discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005 rileggendo il Concilio alla luce dell’ermeneutica della riforma – che in parte ha recepito le istanze del rinnovamento biblico, liturgico e teologico degli anni precedenti, in parte ne ha suscitate di nuove, il tutto cristallizzandosi nei documenti finali che ancora per chissà quanto tempo avranno bisogno di studio e attenzione per essere capiti fino in fondo e attuati. E senza dimenticare che proprio in quegli anni, e provvidenzialmente per chi sappia guardare alle vicende ecclesiali con gli occhi della fede, lo stesso Spirito che soffiava nella basilica di S. Pietro era all’opera per suscitare nuove comunità e movimenti ecclesiali (penso a CL, i Focolarini, il Cammino Neocatecumenale, il Rinnovamento nello Spirito, ecc.), dove molte delle istanze del Concilio hanno trovato attuazione, sotto la vigile guida dei pontefici e dei pastori. Grazie al Vaticano II è stata rimessa al centro della vita dei fedeli la Parola di Dio (Dei Verbum); è stata varata una riforma liturgica (Sacrosanctum concilium) dove la Messa è non è più un assistere passivamente ad un rito, ma partecipazione attiva, personale e allo stesso tempo comunitaria, al Mistero pasquale di Cristo, cioè sacrificio, e quindi morte, e Resurrezione, quindi vita (resurrezione senza la quale, vale la pena ricordarlo, l’intera impalcatura della fede cattolica crolla come un castello di carte); è stata riproposta, tornando alle fonti, un’ecclesiologia (Lumen Gentium) dove la chiesa è Corpo di Cristo e popolo di Dio, all’interno della quale ciascun fedele, in virtù del battesimo, partecipa all’unico sacerdozio di Cristo, senza nulla togliere al sacerdozio ministeriale, riservato esclusivamente ai presbiteri. Col risultato di mandare in pensione la vecchia concezione verticistica e piramidale, che vedeva il clero alla sommità, e di desacralizzare – cosa che ancora oggi, e non per pochi, è il vero problema – la figura del prete, e di affermare al contempo il ruolo del laicato, non più mero ricettore o utente passivo, ma protagonista attivo nella vita della chiesa; una riforma che sicuramente non è stata gradita dai tanti nostalgici dell’era pre-conciliare dove il clero era investito di un’aura sacrale, e negli stessi seminari i futuri sacerdoti venivano formati avendo ben chiaro che diventare prete significava entrare a far parte di un’elite, di una casta ristretta con i laici nel ruolo tutt’al più di braccio secolare e comunque in nessun caso attori ma semplici comparse. Un cambio di prospettiva, quello conciliare, che dopo più di mezzo secolo molti preti (e non solo) fanno ancora fatica ad accettare, fermi come sono ad una visione del sacerdozio come potere e non come servizio. Tanto che il refrain che spesso si sente – a proposito ad esempio dei movimenti e nuove comunità sorte negli anni del Concilio – è il seguente: sì, d’accordo, i laici hanno puntellato e sostenuto la chiesa nel post-concilio, quando c’è stato lo sbandamento, ma ora il loro compito si è esaurito, ed è tempo che i preti si riapproprino del loro ruolo e riprendano in mano il timone della barca. Come se fosse tutta e soltanto, appunto, una questione di potere.
Tre riforme, dunque – biblica, liturgica, ecclesiologica – che non hanno scalfito di una virgola il Depositum Fidei, cioè la Tradizione, ma al tempo stesso hanno portato, o quanto meno hanno posto le premesse per portare, il cristianesimo nella vita concreta, umana ed esistenziale, degli uomini e delle donne del suo e nostro tempo E se forse è eccessivo il giudizio di Massimo Borghesi (Foglio del 22 novembre 2013) quando dice che negli anni 70 fu CL a “salvare” la fede della chiesa, è tuttavia innegabile che grazie ai carismi ecclesiali nati in quegli anni e dove il Concilio si è tentato di attuarlo, decine di migliaia di uomini e donne hanno potuto riscoprire la fede, e altrettanti hanno potuto incontrare Cristo per la prima volta.
Se è vero, come è stato da più parti evidenziato, che la crisi attuale – in primis quella che ha investito la famiglia – è primariamente crisi di fede, la cura non è né fare marcia indietro né vagheggiare balzi in avanti, ma riprendere le fila del Vaticano II, quello vero. A questo scopo, risulta di straordinaria attualità il volume “Alle fonti del rinnovamento”, scritto nel 1972, dunque a ridosso degli eventi conciliari, dall’allora cardinale di Cracovia e futuro pontefice, Karol Wojtyla. Si tratta, per sua stessa ammissione, di un vademecum con cui Wojtyla intendeva illustrare ai fedeli della sua diocesi i frutti dell’insegnamento conciliare. Cardine dell’analisi, la categoria di “arricchimento della fede”, intesa come “partecipazione sempre più piena alla verità divina”, quale postulato fondamentale dell’attuazione del Vaticano II che Wojtyla identifica con il rinnovamento conciliare, a sua volta inteso come una tappa storica dell’autorealizzazione della chiesa. Attuare il Vaticano II vuol dire, in tale ottica, tradurre in atteggiamenti concreti quello che il concilio ha detto, cioè vivere in prima persona quell’arricchimento sia come approfondimento dei contenuti della fede sia come arricchimento della vita del credente, in senso cioè soggettivo, umano, esistenziale. Ma questo implica accompagnare l’attuazione del Concilio con rinnovato slancio missionario, ponendo al centro della pastorale l’annuncio del Vangelo, in linea con quella nuova evangelizzazione che non a caso è stata la bussola del pontificato del papa polacco. Per stare sul tema della crisi della famiglia di cui si è occupato e si occuperà di nuovo tra un anno il Sinodo dei vescovi: è una crisi che parte da lontano e sulle cui cause si è detto e scritto tanto (la secolarizzazione, il laicismo imperante, ecc.); il risultato è che la nostra società vive di fatto etsi Deus non daretur, pervasa da un mix micidiale di ateismo pratico e nichilismo che non solo è indifferente al fatto cristiano ma in alcuni casi lo combatte pure. Di fronte a questa situazione non servono né vangeli “specialistici” né nuovi piani e programmi pastorali. Ciò che serve è tornare ad annunciare il Vangelo; con un linguaggio nuovo, più esistenziale, meno astratto e moralistico, ma lo stesso Vangelo di sempre, ovvero quelle poche parole racchiuse in quei quattro libriccini scritti da Marco, Matteo, Luca e Giovanni. Per far riscoprire agli uomini e alle donne del nostro tempo la bellezza della dottrina cattolica su matrimonio e famiglia, non c’è altra strada che riaccendere la fiamma della fede nel cuore delle persone, evangelizzando di nuovo la società e rifuggendo dalla tentazione, sempre alle porte, di dare al popolo – anche sulla spinta di ben precisi settori dell’opinione pubblica – ciò che il popolo chiede. “…siamo tentati – diceva Paolo VI parlando ai vescovi dell’America Latina il 24 agosto 1968 – “di storicismo, di relativismo, di soggettivismo, di neo-positivismo, che nel campo della fede inducono uno spirito di critica sovversiva ed una falsa persuasione che, per avvicinare ed evangelizzare gli uomini del nostro tempo, dobbiamo rinunciare al patrimonio dottrinale, accumulato da secoli dal magistero della Chiesa e che possiamo modellare, non tanto per migliore virtù di chiarezza espressiva, ma per alterazione del contenuto dogmatico, un cristianesimo nuovo, su misura d’uomo, e non su misura dell’autentica parola di Dio.”.
E’ dalla fede che bisogna ripartire, senza inventarsi nulla. Solo così gli uomini e le donne di oggi potranno tornare a credere che vale la pena stare insieme per tutta la vita, accettarsi e volersi bene così come si è, essere aperti alla vita accogliendo i figli che Dio dona. Perché ci vuole fede per amare sul serio qualcuno. E’ vero, i tempi sono cambiati, e la chiesa deve stare al passo con i tempi. Ma il problema vero, ciò che al mutare delle epoche resta lo stesso, è il cuore dell’uomo. E’ lì che tutto ha origine, come disse tal Gesù di Nazareth: “Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo” (Mc 7,21-23). E’ il cuore dell’uomo la radice del problema, e a quello la chiesa deve puntare avendo ben presente che la sua è di salvare il mondo, non di farsi ben volere dal mondo.

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