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Il Fmi cala il jolly degli investimenti pubblici

In una partita a carte che si sa disperata arriva prima o poi il momento in cui è necessario tirar fuori il jolly, ossia la carta magica che trasforma la realtà del gioco a vantaggio di chi la usa.

Senonché, a differenza di una partite di carte, quella giocata dall’economia internazionale porta con sé una complicazione: chi vorrebbe il jolly non ce l’ha e chi ce l’ha non vuole usarlo. Perciò al mazziere, che nel nostro gioco viene interpretato dal Fondo monetario internazionale, non rimane che sottolineare gli enormi vantaggi che si possono trarre dall’uso del jolly, specie quando, come succede con la nostra economia, la partita minaccia di essere vagamente truccata.

Il jolly del Fmi si chiama investimenti pubblici in infrastrutture. La moral suasion è contenuta in uno dei capitoli dell’ultimo World economic outlook che si intitola, retoricamente “Is it time for an infrastructure push? the macroeconomic effects of public investment”.

Retoricamente perché la risposta implicita è ovviamente un sonoro sì. Addirittura, per non farci mancare niente, il Fmi produce anche una stima secondo la quale un paese tipo, purché sia un’economia avanzata, avrebbe un guadagno di Pil pari allo 0,4% il primo anno se investisse l’1% di pil in infrastrutture pubbliche, che poi arriverebbe all’1,5% quattro anni dopo, con indubitabile benefici sul rapporto debito/pil. Un affarone, insomma. Che stiamo aspettando?

Il Fmi, inoltre, ricorda che il deficit infrastrutturale non è solo un problema delle economie avanzate. I paesi emergenti, che pure dispongono di ampi spazi fiscali, sono quelli che più di altri beneficierebbero di ampi investimenti pubblici. E ciò non potrebbe che far ripartire la crescita mondiale, che sempre le previsioni del Fmi rivedono continuamente al ribasso.

Il fatto è che non è tutto oro ciò che riluce e il Fmi non si perita di ricordarcelo. Molte economia avanzate hanno solo un piccolo spazio fiscale per regalarsi investimenti così costosi. E anche il basso costo del denaro, che da un lato incentiva tale politica, deve fare i conti con l’annunciata volontà di alcune banche centrali di iniziare a normalizzare la politica monetaria. Inoltre la letteratura non è concorde circa gli esiti moltiplicativi degli investimenti pubblici e la loro capacità di ripagarsi. Come insegna il caso giapponese, non a caso espressamente analizzato nell’analisi del Fmi.

Rimane il fatto che lo stock di capitale pubblico destinato agli investimenti in infrastrutture è costantemente declinato dal 1970 in poi. Così siamo arrivati al punto che, oltre agli emergenti, anche paesi come la Germania e gli Stati Uniti soffrono di un grave deficit infrastrutturale che solitamente non è un buon viatico per la crescita del prodotto.

Ciò malgrado le analisi econometriche del Fmi individuano chiari effetti macroeconomici positivi, sia per il prodtto che per il debito, dall’investimento pubblico.

Ma anche qui ci sono alcuni importanti caveat da non ignorare. Ilmodello mostra che gli investimenti pubblici hanno effetti positivi in periodi di bassa crescita, che possono arrivare all’1,5% subito e al 3% nel medio termine, mentre in periodi di alta crescita gli investimenti pubblici producono un effetto sul prodotto praticamente nullo.

Tali effetti, tuttavia, sono assai più visibili in paesi che hanno un livello elevato di efficienza negli investimenti pubblici. Qui infatti la crescita del prodotto potrebbe essere dello 0,8% il primo anno e fino al 2,6% negli anni successivi. Al contrario nei paesi a bassa efficienza si oscilla fra un risicato 0,2% e un massimo dello 0,7 nel medio periodo.

Quest’avvertenza rima con un’altra: i paesi a bassa efficienza degli investimenti pubblici sono quelli che più spesso hanno una maggiore sofferenza fiscale. Con l’aggravante che un paese efficiente vedrà diminuire il suo debito pubblico, in conseguenza degli investimenti, al contrario di quanto accade per un paese con scarsa efficienza.

Ve la faccio semplice: la Germania avrebbe tutto da guadagnare a spingere sul pedale degli investimenti pubblici, l’Italia non sembra proprio. E tuttavia le cronache ci raccontano della ritrosia tedesca a spendere i suoi ampi surplus per investimenti pubblici e della litania italiana di aumentare gli investimenti pubblici per uscire dalle secche della crisi. Il che la dice lunga sull’utilità di queste analisi.

Meglio perciò affidarsi alle analisi empiriche, osservando quello che è successo in Giappone, che certo non si può sospettare di inefficienza.

Il Fmi nota che molti individuano nell’ingente mole di investimenti pubblici effettuati dopo la crisi di fine anni ’80 la causa principale del forte indebitamento attuale nonché del decennio perduto degli anni ’90, visto che tali investimenti, per quanto corposi, non sono riusciti a generare una crescita sufficiente del prodotto e frenare la deflazione.

Ma il Fmi non concorda. “E’ vero – scrivono – il Giappone aumentò gli investimenti pubblici nei primi anni ’90, ma l’aumento della spesa pubblica è stato concentrato sul finanziamento della spesa sociale a causa dell’invecchiamento della popolazione”. Per la cronaca, lo stato incrementò la spesa pubblica dell’1,5% a inizio dei Novanta, per arrivare al picco dell’8,6% nel 1996. “Ma dopo la spesa pubblica per investimenti ha continuato a declinare, riprendendosi solo dopo il terremoto del 2011 e l’inizio dell’Abenomics”.

“Nei vent’anni dopo il 1992 – sottolinea il Fondo – l’ultimo anno in cui il Giappone ha registrato un surplus fiscale, la spesa sociale è aumentata del 10,6% e gli investimenti pubblici sono declinati del 2,3%”. Ciò a fronte di annunci ridondanti di piani di investimento che, nei fatti, hanno prodotto ben poca cosa.

Dal che deduciamo un’altra conseguenza teorica: la spesa per il welfare è sostanzialmente inefficiente, dal punto di vista del prodotto. Il che fa il paio con lo spirito del tempo, che vuole il welfare un problema delle economie e non più un’opportunità.

Per essere produttivo, poi, l’investimento deve rispondere ad alcune precise caratteristiche. Innanzitutto deve essere indirizzato verso progetti con un alto indice di costi/benefici e, soprattutto deve essere fiscalmente sostenibile. In caso contrario la spesa pubblica si trasforma in deficit e non spinge la crescita.

Quindi alla domanda se sia il momento giusto per rilanciare gli investimenti pubblici la risposta è assai semplice: si.

Forse.

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