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Quale futuro per un’Italia senza figli?

E’ un vero peccato che il nostro sia un Paese destinato a scomparire, presto o tardi. Sono anni che il tasso di crescita della natalità rasenta lo zero. I morti superano di gran lunga i nuovi nati e, quel che è peggio, si fanno sempre meno figli. I motivi li conosciamo: paura del futuro, difficoltà economiche, incertezza del posto di lavoro, la tendenza a non considerare stabili le unioni, e via dicendo. Ma al di là di queste ragioni e delle implicazioni economiche del fenomeno, che pure sono notevoli (basti pensare al problema delle pensioni), ciò che stupisce è la quasi totale indifferenza culturale che circonda questo fenomeno. Eppure è sotto gli occhi di tutti. Basta scorrere le pagine dei quotidiani o ascoltare, magari distrattamente, i titoli di testa dei telegiornali per avere notizia degli allarmi che ogni tanto giungono dalle istituzioni o dagli enti di ricerca. Ma non succede nulla, o quasi. Salvo rari e sporadici esempi, e fatta eccezione per alcune lodevoli iniziative di politica famigliare, il problema della denatalità, e quindi del nostro futuro, sembra essere percepito, semplicemente, come un non – problema. Anzi, stando alle analisi dei soliti “illuminati” che si sperticano in previsioni catastrofiche sulla crescita della popolazione mondiale, l’Italia potrebbe a buon diritto essere presa come modello, come punto di riferimento paradigmatico. E quand’anche il problema della denatalità fosse percepito come tale, al massimo viene posto tra le “varie ed eventuali” dell’ordine del giorno. Per non parlare di alcune tesi strampalate secondo cui ci penseranno gli immigrati a risolvere la questione. Tesi che, ovviamente, si commentano da sole, ma che purtroppo sembrano trovare una qualche accoglienza anche tra certi esponenti del mondo cattolico, in nome e per conto di una assai miope teoria dell’accoglienza e della solidarietà che da un lato è più realista del re, dall’altro non tiene conto delle conseguenze culturali di simili politiche. Sarà che viviamo compressi e schiacciati nelle nostre fatiche quotidiane, o che abbiamo ristretto l’orizzonte della vita al nostro ombelico, sta di fatto che è indegno di un Paese civile che un fenomeno di così vasta portata e gravido di conseguenze nefaste come il declino della natalità venga quasi o del tutto ignorato. Ma ogni Paese ha i figli e il destino che si merita. Dal “mitico” ’68 in poi, per anni ci hanno inculcato che era scoccata l’ora della libertà, che ciascuno è padrone del proprio destino, che “l’utero è mio e me lo gestisco io”, che le risorse mondiali scarseggiano perché siamo troppi, che era giunto il tempo di lasciare libero sfogo alle proprie pulsioni sessuali, eccetera eccetera. Alla radice di tutto c’è stata una rivolta. Abbiamo cancellato Dio dalla faccia della terra e ce ne siamo fatti uno a nostra immagine e somiglianza. Illuminanti in tal senso sono le parole del grande San Giovanni Paolo II, che rifacendosi alla formula agostiniana “amor sui usque ad contemptum Dei” – amore di sé fino al disprezzo di Dio, disse: “Fu proprio l’amor sui a spingere i progenitori verso l’iniziale ribellione e a determinare poi il successivo dilagare del peccato in tutta la storia dell’uomo. A questo si riferiscono le parole del Libro della Genesi: «Diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gn 3,5), cioè sareste voi stessi a decidere di ciò che è bene e di ciò che è male” (Memoria e Identità, p. 17). Ecco il punto, “lo decido io quello che è bene e quello che è male”: così pensiamo tutti, più o meno. O no? Ma proprio in questo atteggiamento, diceva il papa polacco, consiste l’essenza del peccato originale. Che strano paradosso. Allorquando abbiamo creduto di esserci finalmente liberati di questo odioso fardello con cui la chiesa ha tenuto soggiogato l’uomo per secoli e secoli, proprio allora è iniziata la storia della nostra sottomissione, come anche sottolineò il papa emerito Benedetto XVI parlando di “tirannide della libertà”. Vico la chiamava “eterogenesi dei fini”: ciò che si realizza è l’esatto contrario delle premesse da cui si è partiti. Abbiamo voluto costruire l’uomo nuovo: libero, solidale, amico dell’umanità, tollerante, fraterno, comprensivo, che ragiona con la testa sua. E abbiamo partorito un mostro. Perché una società che rifiuta la vita è una società mostruosa. Goya diceva “il sonno della ragione genera mostri”. E’ vero l’opposto: è proprio di una ragione emancipata, arrogante e superba, produrre mostri. E va pur detto che una buona parte di responsabilità, in questa triste vicenda, l’ha avuta l’ex Democrazia Cristiana. Che ha commesso due errori, strettamente collegati tra loro. Da un lato, ha lasciato alla sinistra l’egemonia sulla cultura in cambio del potere politico e di governo. Dall’altro, ha accettato la sfida del comunismo, considerandolo maldestramente e ingenuamente alla stregua di un mero sistema economico, ponendosi sul suo stesso, presunto, terreno: il materialismo. E se è vero che da questo punto di vista la ex DC ha vinto favorendo la diffusione del benessere materiale e perciò sconfiggendo il comunismo sul suo stesso terreno, è altrettanto vero che il materialismo ha pian piano corroso le nostre fondamenta culturali e civili, facendo emergere una società consumistica opulenta e vuota, magnificamente descritta da Giorgio Gaber in una delle sue ultime canzoni, L’obeso, che non solo rifiuta la vita, ma che sembra addirittura nutrire un certo fascino per la morte, in ciò mostrando più di una crepa nel suo intonaco smagliante. Di una cosa possiamo esser certi: i peccati si perdonano, ma le conseguenze restano. E si pagano care.

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