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Perché Salvini non mi entusiasma come leader del centrodestra

Per riunire qualcosa è necessario che il “qualcosa” ci sia. Lapalissiano, vero? Ma non per tutti, mi sembra di capire. Infatti, il dibattito politico offre la demenziale rappresentazione di una cosa che non c’è più: il centrodestra. E nelle sue pieghe si colgono vagheggianti ipotesi volte alla sua ricomposizione. Nel teatro dell’assurdo nessuno era arrivato a tanto. Ma siccome in Italia non c’è limite alla fantasia che spesso va a braccetto con la stupidità, qualcuno s’è messo in testa, invece del gel o della brillantina, la stupefacente idea di dare forma a ciò che non esiste dopo averlo con ardore cancellato.

Ed ecco, dunque, riapparire figuri che ce l’hanno messa tutta, riuscendoci, per spegnere un soggetto politico finalmente reale al punto di essere votato dalla maggioranza degli italiani. Quale dio dispose tra il 2010 ed il 2013 la sconfitta del senno nelle schiere di coloro che pur aveva spinto alla vittoria nonostante le loro deboli anime ed ancor più gli insostenibili progetti di rinnovamento sostenuti? Non lo sapremo mai.

Sappiamo però che al culmine di una disperazione tanto visibile quanto insanabile, gli stessi che persero l’occasione storica per evitare la dissoluzione politica del centrodestra cercano, senza neppure affidarsi alla luce di una lampada, il federatore perduto di una cosa che tuttavia è introvabile per il semplice fatto che non c’è.

Dopo la punizione, quel dio ricordato si diverte adesso a prendersi gioco di chi non volle seguirne i disegni. Spalanca, infatti, le porte della follia agli orfani del centrodestra facendo loro intravedere in un tenue chiarore al fondo del tunnel nel quale sono incamminati il miraggio di un possibile salvatore. “Portatemi i vostri doni”, questi sembra che dica, “e vi darò la patria perduta conducendovi a nuove conquiste”. Come? Non è dato saperlo. Ma che cosa importa.

A chi brancola nel buio qualsiasi prospettiva appare appagante. E se questa porta impressi i simboli della Lega Nord per l’indipendenza della Padania, è ininfluente. Il suo leader, Matteo Salvini, che di politica ne sa molto di più di chi lo invoca, non ha mai abiurato alla sua fede e, mi pare di ricordare, che essa, al di là dell’aspetto federalista (che non seduce più nessuno), non comprendesse altri capitoli di condivisione da parte di quanti oggi acclamano il nuovo demiurgo del Carroccio che fa egregiamente la sua parte e mostra un disprezzo silente verso i disorientati nuovi vassalli.

Sicché i vecchi arnesi del defunto centrodestra, immaginando di sopravvivere ancora un po’, si regolano come i signori soggiogati dal Duca Valentino, alias Cesare Borgia, per salvare in qualche modo se stessi. Con la differenza, rispetto a quei remoti tempi, che Salvini, semmai dovesse rispondere al loro appello, non si limiterebbe a sottoscrivere un patto di vassallaggio, ma imporrebbe il proprio dominio assoluto. Ed allora non di centrodestra si dovrebbe parlare, ma di una Lega allargata, sempre che gli stessi elettori, ormai dispersi, fossero davvero disposti a riunirsi sotto le bandiere di chi non tanto tempo fa considerava l’Italia ancor meno di una “espressione geografica”.

Adesso si dice che la Lega abbia un’altra visione della politica. Non ce ne siamo accorti; a parte un certo lepenismo all’amatriciana ci sembra che gli ingredienti dell’opposizione al sistema siano rimasti inalterati. E allora, i residui della destra nazionale, liberale, conservatrice, popolare, solidaristica e cattolica come pensano di porsi sotto l’usbergo di chi ha altri progetti e mai ha abdicato a quella “padanità” che ne costituisce il fondamento identitario?

Certo che è possibile un altro centrodestra. Ma va ricostruito con le idee, appoggiato ad una cultura politica che pure alla metà degli anni Novanta aveva dato segni inequivocabili di vitalità, sostenuto da classi dirigenti capaci di mettersi in discussione e parlare al popolo con un linguaggio comprensibile facendogli intendere che una politica nuova non ha bisogno di essere etichettata, ma praticata. Si ammettano prima gli errori, insomma, e poi si studino i modi per rimettere insieme gli elettori non in un partito della nazione, ma nel “partito degli italiani e degli europei”, cioè di coloro che sanno di poter avere un destino. Complicato, vero?

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