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La guerra dei cent’anni del debito americano

Ora che il debito totale americano ha superato il 360% del Pil, dopo aver sfiorato il 400% appena pochi anni fa, dovrebbe esser chiaro a tutti che siamo di fronte a un tornante della storia e che nessuno sa cosa ci aspetti finita la curva.

Ma chi avesse dubbi dovrebbe iniziare a pensarci sopra, magari osservando un grafico elaborato nell’Ultimo Geneva Report on the world economy, che si intitola icasticamente “Deleveraging? What deleveraging”, a significare del sostanziale fallimento del riequilibrio globale, osservandosi con chiarezza che il disindebitamento del settore privato, che alcuni paesi hanno compiuto, è stato compensato dall’aumento del debito del settore pubblico. Col che si osserva che il deleveraging globale, ammesso che si sia verificato, è stato esiziale, per non dire ininfluente.

Il grafico in questione tratta degli Stati Uniti, e non a caso, essendo gli Usa non solo un Grande Debitore – e difatti gli autori del report parlano di re-leveraging – ma anche l’emittente della moneta più usata negli scambi internazionali. Le obbligazioni americane, perciò, non sono proprio come tutte le altre.

Ma ciò che merita l’attenzione, di questo grafico, è che estende la curva dell’indebitamento americano, suddiviso nei vari settori, per gli ultimi cent’anni, raccontandoci perciò una storia che qui vale la pena riepilogare, trattandosi nientemeno che dell’epopea centenaria del debito americano. Una storia di guerra, peraltro, ora finanziaria, ora guerreggiata.

Infatti il nostro racconto parte dal 1916, quando l’America era ancora lontana dal confitto mondiale pur cumulando un già rispettabile debito globale superiore a circa il 150% del Pil. E’ interessante tuttavia osservare, nella composizione di tale debito, la larga preponderanza del debito corporate, intorno al 100%. Il bilancio pubblico cumulava debiti intorno al 10-15% del Pil, e le famiglie erano più o meno allo stesso livello. Insieme, stato e famiglie, stavano intorno al 30%. Il restante 20% – le cifre sono un ordine di grandezza, non sono precise – erano debiti del settore finanziario.

S’intravede in quel tempo una società frugale, dove lo stato era sparagnino e le famiglie pure. Le banche erano prudenti e il rischio stava doveva essere: nelle aziende. Che si indebitavano per, capitalisticamente, far profitti.

Con l’entrata in guerra si osserva il primo cambiamento. Il settore pubblico e quello privato aumentano i debiti, mentre quello corporate rimane stabile. Alla fine del conflitto il debito globale era persino diminuito, ma ne era mutata la composizione. Il settore pubblico arriva a sfiorare il 50% del pil e quello delle famiglie segue la stessa traiettoria.

I ruggenti anni venti si segnalano per una diminuzione del debito pubblico, seppure moderata, e da un crescente indebitamento delle famiglie, incantate dai beni durevoli, vera novità degli anni venti, delle aziende, che li producevano, e della banche, che li finanziavano. Sicché alla fine del decennio d’oro il debito globale quotava intorno al 200% del Pil. Il popolo americano sperimentava la sua prima euforia finanziaria.

La devastazione degli anni ’30 provocò un effetto disastroso sul debito/pil, innanzitutto perché crollò il denominatore. Gli esperti la chiamano debt-deflation. L’indice si portò al 300%.

L’America si trovò a dover gestire un debito di guerra senza neanche essere in guerra, e infatti non si peritò nell’utilizzare strumenti di guerra per riportarlo alla normalità.

Se ne vede traccia nell’aumentato peso relativo del debito pubblico, conseguenza del New Deal, rispetto alle altre componenti, che accompagnò, declinando dolcemente lungo gli anni trenta e i primi anni ’40, il deleveraging globale. Prima dell’ingresso in guerra, il debito globale era sceso intorno al 200%, ma l’economia americana era già profondamente mutata. S’intravede il ruolo crescente, per non dire preponderante, dello stato, che ormai prende per mano i capitalisti e le sorti stesse dell’economia. Questo è il principale esito della guerra economica degli anni ’30.

Con i preparativi e l’ingresso in guerra l’importanza del bilancio pubblico diventa preponderante. Fra la prima e la seconda metà degli anni ’40 il debito pubblico americano s’impenna fino a superare il 100% del Pil a fronte di un debito totale intorno al 160%. La guerra economica dei ’30 e l’economia di guerra dei ’40 combinate insieme avevano trasformato in un trentennio la patria del capitalismo nel Leviatano.

Se guardiamo a un altro grafico, che misura il bilancio della Fed in rapporto al Pil, osserviamo un’altra cosa. Il livello attuale, oltre il 24% del Pil, non è stato mai raggiunto, neanche nel 1945, quando al massimo era arrivato al 16%. E già questo dovrebbe bastare a capire che l’America è in guerra, pure oggi.

Nel dopoguerra il pattern cambia nuovamente. Il governo intraprende un trend declinante del suo indebitamento che porta con sé anche quello del settore privato. Nel corso degli anni ’50 si osserva un peso crescente dell’indebitamento delle famiglie, ma quando intorno al 1955 il debito scende sotto il 150%, al livello del 1916, l’America sembra un paese completamente differente. Il peso del debito pubblico è oltre la metà del totale. Il capitalismo americano è in buona parte un capitalismo dove lo stato gioca un ruolo da protagonista.

Dalla fine degli anni ’50 e per tutti i sessanta il debito pubblico declina, sempre in rapporto al Pil. Ricordo che quelli furono gli anni della grande crescita del prodotto, mentre il rapporto debito/pil rimase costante anche se con tendenza al rialzo. Ciò vuol dire che l’aumento in valore assoluto dei debiti veniva compensato da quello del Pil.

L’economia americana, tuttavia, stava nuovamente cambiando faccia. Al declinare del debito pubblico, infatti, corrispose una crescita rigogliosa di quello delle famiglie e delle imprese, che proseguì per tutti i sessanta e i settanta. L’economia americana intraprese il suo percorso di economia che cresce grazie al debito, alimentandosi sostanzialmente col consumo interno. Il Grande Debitore diventò anche il Grande Consumatore. Una simpatica riedizione, rivista e corretta (al rialzo) degli anni venti.

La novità che si osserva dal finire dei ’50 è l’indebitamento crescente del settore finanziario, che prosegue in crescita da quel momento in poi estendendosi a partire dai ’70. Altra novità, comincia ad essere visibile il debito delle entità statali sponsorizzate dal governo che, pur non essendo conteggiate nel debito del governo, di fatto capitalizzano un debito che è sostanzialmente pubblico.

Dalla metà degli anni ’80 il debito pubblico riprende a salire, anche se assai meno di quello privato e finanziario. Nel 1986 ormai il totale viaggia intorno al 200% del Pil e si impenna, spinto da tutte le componenti, fino al 250 un decennio dopo. La componente del debito delle famiglie e delle banche diventano maggioritarie. Il cittadino-debitore-consumatore, con le banche chiamate a sostenere i suoi desiderata e le imprese ad alimentarli, è ormai il paradigma della crescita.

Nei primi anni 2000, mentre il debito pubblico è di nuovo in discesa – pesa circa il 50% de Pil – il totale ha ormai superato il 300%, e non accenna a rallentare. Anzi: la curva dell’indebitamento è ripida come mai nella storia ormai quasi centenaria del debito dell’economia americana.

Nel 2007, al picco, arriva a sfiorare il 400%, con banche e famiglie a fare la parte del leone.

Scoppiata la crisi avviene una sorta di swap. Il debito pubblico s’impenna, tornando a livelli che ricordano quelli antecedenti alla guerra, quello delle banche (salvate dallo stato) crolla, quello delle famiglie si stabilizza con tendenza al ribasso, così come quello delle imprese, mentre una quota rilevante rimane in pancia alle entità sponsorizzate dallo Stato.

Così arriviamo ad oggi. Con una differenza, rispetto agli anni trenta. In quel tempo fu il crollo del denominatore a far salire il rapporto debito/pil. Oggi è l’aumento del numeratore. Quindi è il valore assoluto dei debiti a crescere.

Il debito monstre che l’America cova amorevolmente, e che gira vorticosamente per tutto il mondo, è distribuito pressoché egualmente fra stato, famiglie, imprese e banche, anche se stato e banche mostrano un peso relativo leggermente superiore agli altri settori. Il capitalismo americano somiglia sempre più chiaramente al tardo capitalismo preconizzato da Werner Sombart nel 1902, dove lo Stato ormai è attore più che attivo nel processo economico.

La guerra dei cent’anni fra Usa e debito mostra un chiaro vincitore: il debito è arrivato al 363% del Pil.

Gli sconfitti siamo noi.

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