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L’Occidente ha perduto la Turchia?

Erdogan

I profeti della globalizzazione e gli ottimisti a oltranza, e fantasiosi sostenitori della “fine della storia” degli Stati e degli interessi nazionali sono smentiti non solo da quanto sta avvenendo in Asia Orientale e Meridionale, fra la Cina di Xi Jinping, il Giappone di Abe e l’India di Modi, ma anche dalla ripresa del nazionalismo in Russia e in Turchia.

La postmodernità dell’internazionalismo liberale post-moderno e post-nazionale, di cui si voleva essere modello l’Unione Europea, sta lasciando il posto alla geopolitica tradizionale dello Stato-potenza, delle zone d’influenza e del nazionalismo territoriale. Dio è ritornato nella politica e nella storia: Putin con l’ortodossia, sempre più coerente con il panslavismo; Erdogan con l’Islam. Entrambi hanno nostalgia dei loro vecchi imperi, sovietico e ottomano. Ne esaltano i pregi e ne celebrano i successi. Putin cerca di ricostruirlo con l’“estero vicino” e con l’unilaterale affermazione del suo diritto di proteggere le minoranze russe di altri Stati. Erdogan lo persegue con la formula “neo-ottomana” della “profondità strategica”. Si propone di mettere la Turchia con il suo soft power al centro di uno spazio geopolitico esteso dai Balcani al Medio Oriente e dall’Africa settentrionale al Caucaso o alle popolazioni turchiche dell’Asia Centrale.

Tale ambizione può essere realizzata solo con una politica indipendente e, talvolta, opposta a quella occidentale.
E’ la fine della scelta di Kemal Ataturk perseguita con l’abolizione del Califfato, con l’adozione dell’alfabeto latino e con il considerare la religione un fatto privato. Per il fondatore della Turchia moderna, l’interesse primario turco era quello di europeizzarsi. Per Erdogan, che monopolizza sempre più il potere in Turchia, la priorità va alla realizzazione di interessi nazionali a breve termine e all’eliminazione della soggezione della Turchia all’Occidente. La manifestazione più eclatante di tale posizione è rappresentata dall’ambiguità turca nei confronti della coalizione anti-ISIS, dal rifiuto di concedere l’uso della base aerea di Incirlik e dalle intese con Putin nel corso della sua recente visita di Stato.

L’evento che meglio documenta tale mutamento profondo della politicaturca, interna e internazionale, è il discorso tenuto lo scorso 23 ottobre dal presidente turco all’Università di Istanbul. Esso non è stato sorprendente per il suo contenuto, quanto per l’asprezza dei suoi toni anti-occidentali, ripresi all’Organizzazione della Conferenza Islamica alla fine di novembre. Non è nuova l’ambizione della Turchia di divenire la potenza organizzativa del Medio Oriente, facendosi in un certo senso campione degli arabi contro le ingerenze iraniane, occidentali e anche saudite ed egiziane. L’Iran, con la “mezzaluna sciita”, estesa dagli Hazara afgani agli Hezbollah libanesi, si oppone a tale grandioso progetto, sostenuto invece da quanto resta della Fratellanza Musulmana. Vi si oppone anche il blocco conservatore sunnita, che fa capo alle dinastie del Golfo e dall’Egitto. Il punto chiave è rappresentato dal dittatore siriano Assad, legato a Teheran, e dalla sua resistenza all’insurrezione siriana, di cui Ankara cerca di prendere la direzione.

Il progetto “neo-ottomano” è oggi minacciato anche dall’ISIS, che ha “scippato” a Erdogan l’idea del Califfato. All’inizio, Ankara lo aveva sostenuto. Oggi pensa che si tratti diuna “quinta colonna” dell’Arabia Saudita, che lo utilizzerebbe non solo per contrastare l’Iran, in Siria e in Iraq, ma anche la ripresa dell’influenza turca nel mondo arabo.

Prima dell’inizio della rivolta in Siria, la strategia turca verso il mondo arabo era “mercantilista”. Era basata sulle “tigri anatoliche”, PMI turche, che stavano rapidamente conquistandone i mercati. Dava priorità agli affari rispetto all’ideologia (islamica) e anche alla geopolitica. Completava il concetto di “profondità strategica” con quello di “nessun nemico alle frontiere”.

Con la rottura nei confronti di Israele, suo alleato durante la guerra fredda, la Turchia aveva accresciuto il suo prestigio in tutto l’Islam. Con la “primavera araba”, Erdogan aveva poi sperato di estendere il suo soft power, con l’adozione da parte dei nuovi regimi del “modello turco” di democrazia islamica. Aveva sostenuto la Fratellanza Musulmana. Il colpo di Stato in Egitto ha infranto tale speranza. Rimane la Tunisia, in verità un po’ poco per giustificare le primitive ambizioni turche.

In Iraq le cose sono andate meglio per Erdogan. I rapporti non solo economici ma anche politici con il KRG, specie con il Partito Democratico Curdo di Massoud Barzani, sono sempre più fiorenti. Ankara si era scontrata con Baghdad. Il settarismo sciita di Nuri al-Maliki le aveva permesso di “giocare” a fare la protettrice dei sunniti. Aveva dato asilo al vice primo ministro iracheno, il sunnita Tariq al-Hascemi, condannato a morte a Baghdad. Risulta che egli sia ancora molto attivo in Turchia. Avrebbe organizzato il sostegno all’ISIS delle milizie tribali sunnite irachene e svolto un ruolo importante nello scambio della liberazione di miliziani dell’ISIS, catturati da insorti sunniti in Siria, con quella dei diplomatici turchi fatti prigionieri a Mosul dalle milizie del Califfato.

Nel suo discorso, Erdogan ha affermato con forza che gli accordi Sykes-Picot – simbolo delle interferenze occidentali in Medio Oriente – sono stati e sono tuttora la causa di tutti i conflitti nella regione. Ha aggiunto che Lawrence d’Arabia era solo una spia britannica e un traditore della promessa fatta agli arabi dalla Gran Bretagna di costituire un loro grande Stato arabo, per premiarli della loro rivolta contro l’Impero Ottomano. Ha proseguito che l’Islam non ha amici e che l’Occidente vuole dominarlo. I “nemici” dell’Islam non sono solo esterni. Esistono nella stessa Turchia. Sono i giornalisti, i dipendenti dello Stato, i giudici e i religiosi che si oppongono alla politica dell’AKP. Il riferimento all’Organizzazione Gulen era più che evidente. Ha infine ribadito che la Turchia prenderà parte attiva alla coalizione anti-ISIS solo se essa sarà diretta anche all’eliminazione di Assad e dei “terroristi” del PKK. Solo la Turchia potrà portare la pace in Medio Oriente. Non intende però ricostituire l’impero ottomano, contrapposto con quello persiano, némodificare i confini fra gli Stati. Realizzerà la pace,dando ai popoli della regione fiducia, speranza e benessere. Insomma, Erdogan è persuaso di avere la “bacchetta magica” per risolvere tutti i problemi.

Le affermazioni del presidente turco sono state accolte con preoccupazione e anche ironia a Riad, a Teheran e in Occidente. I sauditi temono che la Turchia con la sua proposta di costituire una fascia cuscinetto a Sud del suo territorio, voglia impossessarsi di terre arabe, non solo in Siria, ma anche nell’ex-vilayet ottomano di Mosul, comprendente le ricche province di Arbil e diKirkuk. Tale rivendicazione “neo-ottomana” era stata sostenuta anche da Ataturk fino al 1927, quando Mosul fu incorporato nel Regno dell’Iraq, allora sotto mandato britannico. Ma l’interesse turco per Mosul permane. Lo dimostra il numero di diplomatici – più di quaranta – impiegati nel consolato turco della città.

Le future mosse del “Sultano” sono imprevedibili. Molto dipenderà se gli USA accetteranno le condizionalità che ha posto per impiegare le sue potenti forze armate contro l’ISIS: attacco ad Assad, no-fly zone e costituzione di aree protette per i rifugiati siriani, ecc. Gli obiettivi a lungo termine espressi nel concetto di “profondità strategica” mi sembrano però incompatibili con le risorse di cui dispone la Turchia. La sua potenza e influenza dipendono grandemente dal mantenimento dei suoi legami con gli Stati Uniti e con l’Europa.

Appare anche strano che Erdogan pensi di poter assumere la leadership dei paesi arabi. Il ricordo della fiscalità ottomana pesa ancora nella regione. Non per nulla dopo il discorso a Istanbul in taluni media arabi gli è stato attribuito lo scherzoso, ma non tanto, soprannome di “Erdogan d’Arabia”, pronto a tradire gli arabi per fare i propri interessi.

La “luna di miele” di Erdogan con Putin non significa che l’Occidente abbia “perduto” la Turchia. Troppo radicati sono i suoi legami con l’Occidente. Un recente sondaggio ha dimostrato che il favore nei riguardi dell’Europa e della NATO è aumentato nella pubblica opinione turca. Certamente,Erdogan è persuaso che gli USA e l’Europa, preoccupati per la sua imprevedibilità e per la deriva islamista e autoritaria della Turchia si oppongono alle sue ambizioni.

Lo infastidiscono le critiche rivoltegli per la repressione delle manifestazioni per il Gezi Park e per la disinvolta durezza con cui ha destituito magistrati e poliziotti che lo avevano accusato di corruzione. E’ persuaso che l’Occidente non gli perdoni la rottura con Israele, le pressioni esercitate su Cipro a sostegno di pretesi diritti della minoranza turca dell’isola nello sfruttamento del Bacino Levantino, la mancata adesione alle sanzioni contro la Russia e, ultimamente, il “giro di valzer” con Putin e i suoi discorsi anti-occidentali. La retorica di Erdogan non deve far pensare che l’Occidente abbia perduto la Turchia. La sua intesa con la Russia è pragmatica, volta a perseguire interessi economici. Non può essere una partnership strategica, né tanto meno un’alleanza permanente.

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