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Elogio dell’arte sacra allestita da Roberto Benigni

“L’arte crea la bellezza, e la bellezza avvicina all’essere mostrando un orizzonte della realtà in cui si sente la presenza del sacro”. Queste splendide parole dell’Introduzione alle arti del bello di Etienne Gilson, uno dei massimi filosofi cristiani del ‘900, sono sicuramente il miglior modo di presentare la prima puntata che Roberto Benigni ha dedicato ieri sera ai Dieci Comandamenti su Rai Uno. D’altronde, il citato pensatore francese è stato anche colui che con più vigore ha sostenuto l’esistenza in Occidente di una ‘filosofia dell’Esodo’, sviluppata attorno alla rivelazione che Mosè ebbe di Dio come Colui che è, con la quale il comico toscano, molto opportunamente, ha aperto il suo spettacolo.

In effetti, non esiste definizione migliore del monoteismo universale, e non ne esiste una migliore di quella data nel racconto dell’Esodo per descrivere e interpretare il lungo e appassionato commento che Benigni ha offerto al pubblico sui primi tre Comandamenti: si è trattato di vera arte sacra. Arte: perché le doti creative, lessicali, ironiche e culturali dell’artista si sono espresse a pieno. Sacra: perché l’oggetto questa volta non era Dante Alighieri o Alessandro Manzoni, ma Dio stesso, in uno dei momenti più alti della sua Rivelazione positiva, quella appunto delle Tavole della Legge.

Con grande abilità e maestria, Benigni ha condotto la questione della chiamata di Dio all’umanità, attraverso il Popolo di Israele e la figura del suo Profeta maggiore, dando la spiegazione storica del profilo personale di Mosè, radicata all’interno della straordinaria missione che Dio stesso gli ha affidato di liberare gli ebrei dalla schiavitù dell’Egitto.

D’altronde, l’importanza religiosa dei Comandamenti si nasconde proprio in questo apparente paradosso di un Dio misterioso, ineffabile e invisibile creatore dell’intera realtà che decide di affidare materialmente ad un uomo, apparentemente persino insignificante, il ruolo nientemeno di colui che dovrà ricevere, preservare e comunicare le leggi fondamentali che permettono in ogni tempo e luogo all’uomo di entrare in rapporto con il suo creatore e la sua felicità.

San Tommaso d’Aquino, non a caso, diceva che la potenza comunicativa dei Comandamenti è il loro essere espressione rivelata della legge naturale, ossia di quei principi sacri, iscritti nell’intelligente natura delle cose, che il genere umano avrebbe potuto conoscere anche da solo, ma che il peccato ha offuscato e gettato nell’ignoranza, e che Dio allora ha voluto ribadire e codificare.

La maestria di Benigni è stata sicuramente il saper catturare, trascinare lo spettatore comune, seduto sul divano distrattamente, nel cuore di uno dei misteri più grandi dell’esistenza umana, trascinandolo con sé all’interno di un ragionamento lucido e appassionato, leggero e grave, senza cedimenti alla banalità e mai ignaro della consapevolezza totale della posta in gioco.

Particolarmente rilevanti, ad esempio, sono stati i suoi rilievi, accompagnati sempre da una lettura posata, quasi filologica, dei primi due Comandamenti che hanno, com’è noto, per oggetto proprio Dio stesso: ”Non avrai altro Dio al di fuori di me; non nominare il nome di Dio invano”.

Benigni ha rimarcato il valore portante dell’iniziativa divina, la quale si esplica attraverso l’auto presentazione del Signore come “Dio tuo” al cuore di ogni persona. Unicamente quando Dio si coglie come un Dio personale per qualcuno, ossia una presenza realmente soggettiva che interpella direttamente la soggettività dell’anima, allora è anche possibile comprendere la ‘gelosia di Dio’ e la sua connessa esclusività e severità nel pretendere, nel perdonare, nel giudicare. D’altronde, questo amore infinito e in un certo senso perfino disperato di Dio per ogni essere umano è la spiegazione antica dell’opportunità nuova dell’Incarnazione, vale a dire della presenza personale divina e umana di Cristo nella storia: esclusivamente un Dio che crea non avendone bisogno è un Dio che può anche amare fino a morire sulla Croce per salvare l’umanità.

Molto suggestive sono state, inoltre, le osservazioni che Benigni ha proposto della ‘vana stultitia’, vale a dire del divieto di nominare Dio invano. Giustamente, non si tratta solo dell’esortazione a non bestemmiare, ma del più profondo monito a non trasformare il Dio vivente in un’icona egoista della violenza. In fondo questi primi dettami della Rivelazione ci dicono che i due errori inveterati dell’uomo di sempre sono di avere idoli e di fare di Dio un idolo, fenomeni che oggi appaiono nelle due forme massime di pericolo: la tecnocrazia e l’integralismo.

Il terzo Comandamento chiude la sequela, indicando la corretta collocazione dello spazio di Dio nella vita concreta di ognuno. La sua comprensione è legata all’idea stessa di sacralità della festa. Dio ha creato l’uomo affinché lavorasse, o, come dice la Genesi, ut opereretur, ma non l’ha creato solo per lavorare. Benigni è stato bravissimo a spiegare il rapporto ordinato tra attuazione e realizzazione, tra contentezza e felicità. Mentre, infatti, si opera nell’opera di Dio che è il mondo, si coopera con lui in vista di poter godere nel riposo temporale solo di Dio stesso, come Dio stesso si è compiaciuto eternamente il settimo giorno della creazione che aveva realizzato.

La connessione tra riposo e fiat, tra contemplazione e azione, è quanto esprime in modo semplice e perfetto la modalità articolata con cui il cristiano prega operativamente, senza sfumare le differenze, ma senza frazionare mai l’unità della propria vita.

Gilson aveva ragione, dunque: l’arte crea la bellezza, e la bellezza rivela il sacro. Ed è difficile esprimere, in un contesto di volgarità e di stupidità come quello che domina l’odierna scena catodica, quanta soddisfazione abbia dato, almeno al sottoscritto, poter ascoltare un coraggioso atto di devozione alla vita, al suo mistero e alla sua origine teologica, come quello che Benigni ha voluto donare con tutto se stesso al pubblico italiano, spiegando laicamente le radici religiose dell’umano e le finalità umane del religioso.

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