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Il Festival Prokofiev all’Accademia di Santa Cecilia

Su questa testata ci siamo più volti rivolti al tema di come gli intellettuali sovietici siano o non siano venuti a patti con il regime autoritario. Ad esempio, il 7 dicembre prendendo spunto dalle rappresentazioni a Bologna de La Lady Macbeth del distretto di Mzensk di Dmitri Šostakovi, abbiamo affrontato il tema delle sofferenze di un compositore che si considerava un vero comunista, oltre che un patriota, tanto da restare a Leningrado durante gran parte del lungo assedio.

Sappiamo che dei tre compositori russi che più incisero sulla musica del Novecento, Igor Stravinskij non ebbe alcuna simpatia per il comunismo e chiese di essere sepolto in Italia (giace al cimitero greco ortodosso di San Michele) anche in quanto, a suo dire, l’Italia era l’unico Paese che per un periodo aveva avuto un Governante che capiva ed apprezzava la musica del Novecento. Più complesso il percorso del terzo Sergej Prokofiev, di cui trattammo il 29 maggio in occasione sia della messa in scena a Firenze de L’Amour de Trois Oranges Su Prokofiev è stato pubblicato alcuni anni fa un libro esauriente di Piero Rattalino (“La vita, la poetica, lo stile”, Zecchini Editore 2003), la cui lettura può essere una buona premessa per meglio goderne la musica.

Prokofiev è stato un “figlio geniale ma capriccioso” (la definizione è di Tommaso Manera) che, dopo avere lasciato la Russia all’inizio di una “rivoluzione proletaria” che per lui – lo ammettono anche i musicologi schierati a sinistra – era almeno “problematica” – vi ritornò (gradualmente) mentre stava cominciando il periodo peggiore del terrore staliniano, ebbe la propria prima moglie deportata nel gulag nel 1948 (e successivamente costretta all’espatrio), cantò non solo le gesta della Russia in guerra contro la Germania , compose nel 1950 l’oratorio più celebrato dal comunismo internazionale (“Siate vigili per la Pace”), e morì quasi alla stessa ora di Stalin tanto che del suo decesso diede notizia un giornale americano quattro giorni dopo e la “Pravda” ben sei giorni più tardi.

Di norma, in Italia si presenta questo o quel lavoro di Prokofiev un “enfant prodige” – già a 11 anni ha composto il testo e la musica di una cantata. Nel clima di una Russia che si avvicinava alla Rivoluzione d’Ottobre, oltre a sfornare una produzione sorprendente, per quantità e per qualità, di cameristica e di avvicinarsi al teatro in musica (con la prima versione de “Il giocatore”, le cui prove furono interrotte dalla Rivoluzione del Febbraio 1917) si appassionò alle espressioni più moderne – dal neobarocco, al futurismo, al dadaismo – tutte molto distanti dal post-wagnerismo della musica tedesca o dal verismo che allora permeava la musica italiana ed, in parte, quella francese e che sarebbe diventato “realismo socialista” nella poetica leninista e stalinista.

Pianista di eccezionale qualità, venne accolto a braccia aperte in Occidente quando nel 1918 lascia (in compagnia della madre) la Russia alla volta di Parigi (che aveva già conosciuto ed apprezzato nel 1911, a 20 anni), Londra e Chicago dove, dopo molte peripezie, trionfa “L’Amour des Trois Orange’, opera tratta da una commedia di Carlo Gozzi con un ritmo sincopato futurista, una vera e propria di personaggi, un organico orchestrale contenuto ma soprattutto un’ironia sferzante contro gli autoritarismi di ogni genere e specie, i falsi intellettuali, gli utili idioti e via discorrendo. Curiosamente, l’opera ebbe un’accoglienza trionfale a Leningrado (nome che allora aveva San Pietroburgo) quando venne ivi rappresentata nel 1927; i burocrati sovietici non si accorsero del suo potenziale rivoluzionario.

Nonostante il carattere vagamente laicista (che sarebbe potuto piacere alla nomenklatura ed alla Commissione per l’Ateismo) un altro capolavoro per il teatro in musica (“L’angelo di fuoco”), commissionato inizialmente dal Metropolitan (dove non andò mai in scena), restò un manoscritto nella sua casa di Parigi (dove alcune parti vennero eseguite in forma di concerto); la prima rappresentazione scenica fu postuma, ed in traduzione ritmica italiana, al Festival di Musica Contemporanea di Venezia nel febbraio 1955. In effetti, l’insolitamente lungo periodo di composizione del lavoro, coincise per molti aspetti con la sua graduale decisione di ritornare in Russia. Accettò, in primo luogo, di comporre le musiche per un film brillante (che sarebbe stato di grande successo) , “Il luogotenente Kijé”, poi di un balletto, “Romeo e Giulietta”, e di avvicinarsi sempre più ad uno stile che sarebbe stato accattivante per il pubblico russo (ad esempio, il “Primo concerto per violino ed orchestra”), quindi sempre più distante sia dalle esperienze dadaiste e futuriste di pochi anni prima sia dal nuovo linguaggio che prendeva piedi in Germania, in Francia ed in Italia e che avrebbe avvicinato lo stesso Stravinsky (émigré come lui al tempo della Rivoluzione d’Ottobre) alla dodecafonia.

Nell’Unione Sovietica, la vita dei musicisti era severamente regolamentata: suo moglie – si è detto – finì in campo di concentramento prima di essere deportata (si spense a Londra nel 1989), uno dei suoi migliori amici Vsevolod Mejerchol’d, librettista dell’opera “Seimon Kotko” (visto a Cagliari alcuni anni fa in un allestimento del Bolshoi), fu condannato a morte nel corso delle purghe staliniane, si legò ad una donna di giovane età, compose addirittura una “Cantata per il ventennale dalla Rivoluzione d’Ottobre” (da cui se la era data a gambe levate) ed un’altra per il sessantesimo compleanno di Stalin, oltre a lavori più noti (“Guerra e pace”, le musiche per i film di Eisenstein), molti con un forte contenuto patriottico.

Un opportunista, come considerato per anni da certa critica di destra? Un irrimediabile tradizionalista, incapace di prendere atto della crisi del sistema tonale, e di meditare sulla serialità e sulla dodecafonia, come scritto per decenni dalla critica italiana e tedesca di sinistra?

Difficile dare una risposta: il beffardo dadaista e futurista dalla cultura internazionale è forse semplicemente rientrato in Russia sui 45 anni per amore e nostalgia di Patria, pagando il prezzo di venire a patti con il sistema politico imperante. Lo suggeriva nel 1940 in “Seimon Kokto” (curiosa opera comica sulla campagna ucraina ai tempi della prima guerra mondiale) ed ancor meglio un’opera minore del 1948 , singolarmente intitolata “La storia di un vero uomo” (mai rappresentata in Occidente) in cui si tenta, senza riuscirci, di mostrare cosa è il “vero uomo sovietico”.

Di solito i lavori di Prokofiev vengono divisi in tre periodi: quello dadaista e futurista, quello ispirato ad un’Europa gotica e peccaminosa e quello russo. E di solito vengono eseguite uno o due lavori di uno dei tre periodi. Bene, quindi, ha fatto l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia a produrre da 10 al 15 dicembre un festival in cui i propri complessi e quelli del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo hanno proposto un vero e proprio percorso per ‘comprendere’ Prokofiev dalla prima sinfonia al lungo oratorio (una vera e propria opera in un atto)dal film ‘Ivan Il Terribile’ Seconda Parte. I complessi dell’Accademia e del Marrinskji hanno avuto l’apporto del Coro diretto da Ciro Visco, del Coro di Voci Bianche, del violinista Leonidas Kavakos, del contralto Yulia Matochjina, del baritono e della voce recitante di Tommaso Ragno. In breve , un programma ed una formazione che oggi non solo quale ente concertistico o teatro sarebbe in grado di mettere in campo. Eppure è forse l’unico modo per avvicinarsi oggi a Prokofiev.

Un viaggio dalle prime sinfonie del 1916-17 alle ultime del 1966-47 e del 1952 mostra come anche dopo il ritorno in Unione Sovietica, Prokofiev fosse attento agli sviluppi in Europa Occidentale, pur senza mai esser tentato (come Stravinskij) dalla atonalità ed ancor meno dal costruttivismo. I concerti per violino ed orchestra mostrano la sua continua attenzione al virtuosismo. L’ouverture Russa del 1936 spiega meglio di ogni altro saggio perché sia tornato in Patria. Infine, il grandioso oratorio ‘Ivan Il Terribile’ Seconda Parte non è solamente un dramma politico avvincente ma una dimostrazione dello stato di avaramente tecnico raggiunto a Alma Alti in Asia centrale (dove era stata trasferita la cinematografia durante la seconda guerra mondiale) nel coniugare partitura ed immagini.

Un’esperienza unica di cui occorre essere grati all’Accademia ed al Mariinskij.

Foto di Riccardo Musacchio

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