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Quirinale, i messaggi in bottiglia di Renzi

Le omissioni in politica possono risultare più significative delle declamazioni. Lo dimostra questo passaggio dell’intervista di Matteo Renzi al Foglio ultraberlusconiano sulla ormai imminente conclusione anticipata del secondo mandato presidenziale di Giorgio Napolitano e sulla conseguente scelta del successore: “Una volta elaborato un profilo, lo proporremo ai nostri alleati, poi a tutti gli altri partiti: dal Movimento 5 Stelle a Sel, passando naturalmente anche per la Lega”.

Il plurale di Renzi si riferisce ovviamente alla sua natura più di segretario del Pd che di presidente del Consiglio. Il “profilo” del candidato al Quirinale, come lui lo chiama, dovrà uscire da una valutazione o decisione del partito di maggioranza, presa fra direzione e gruppi parlamentari, dove Renzi si propone lodevolmente di condurre un confronto vero, non finto. Il suo problema è di evitare che valutazioni personali, comunque prese dall’alto, vengano clamorosamente smentite nel segreto dell’urna a Montecitorio, quando i cosiddetti grandi elettori del Pd verranno chiamati a votare.

I “franchi tiratori” del Pd, cioè i traditori o indisciplinati, secondo le preferenze, affondarono due anni fa le candidature al Quirinale prima di Franco Marini e poi di Romano Prodi. E provocarono infine anche le dimissioni dell’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani, naufragato con la sua pretesa di formare un governo minoritario appeso agli umori dei grillini.

Gli “alleati” ai quali Renzi intende sottoporre il candidato o la rosa di candidati del Pd dovrebbero intendersi come partner di governo e di maggioranza, cioè i partiti di Angelino Alfano, Pier Ferdinando Casini e Mario Monti, o ciò che rimane di quest’ultimo dopo la frantumazione di quella che fu offerta agli elettori del 1983 come “Scelta Civica”.

Ma, pur omettendo di chiamarlo per nome, visto che non lo ha menzionato fra “tutti gli altri” collocati all’opposizione, cioè tra grillini, vendoliani e leghisti, si deve ritenere che Renzi consulterà Silvio Berlusconi nel giro degli “alleati”.

D’altronde, pur votando contro la fiducia al governo nelle aule parlamentari, e schierato quindi formalmente all’opposizione, il partito di Berlusconi si è legato a Renzi come sostanziale partner di maggioranza sul versante non irrilevante delle riforme: da quella elettorale a quella costituzionale del bicameralismo e dei rapporti con le regioni.

Ma se le cose stanno così, se è possibile e corretto considerare Berlusconi nell’area degli alleati, cioè della maggioranza, non si capisce francamente perché mai il presidente del Consiglio e segretario del Pd faccia continuamente contrastare dai suoi collaboratori ed amici il diritto comprensibilmente reclamato dal leader di Forza Italia di mettere nella partita del cosiddetto “Patto del Nazareno” fra lui e Renzi sulle riforme anche la partecipazione alla scelta del successore di Napolitano.

Un po’ di buon senso e di lealtà – la stessa lealtà che Renzi chiede alla minoranza e ai dissidenti del Pd ogni volta che ne ha l’occasione, fra minacce e allusioni al ricorso anticipato alle urne – dovrebbe valere anche per lui e per i suoi amici nei rapporti con Berlusconi. Che non può essere di notte l’alleato e di giorno l’oppositore, addirittura con minori diritti o dignità degli altri oppositori.

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