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Quanto è reale Homeland?

La puntata di “Homeland” – serie Tv di spionaggio ideata da Howard Gordon, Alex Gansa – trasmessa venerdì scorso da Sky, “13 ore a Islamabad”, è stata considerata da molti critici televisivi l’episodio che ha dato definitivamente nuovo sprint alla serie. In effetti, il pubblico si era un po’ stancato del dramma psicologico costruito intorno alla protagonista, Carrie Mathison, e la morte dell’altro protagonista, Nicholas Brody, aveva tolto interesse, con il ritmo del racconto del cominciava a rallentare.

Tutta la quarta stagione (l’ultima prodotta, attualmente in onda in Italia) non è così: Carrie resta sempre l’agente della Cia controversa che era fin dall’inizio, preda dei suoi sdoppiamenti di personalità, dovuti anche allo stress accumulato durante le ore di servizio. Ma tutto è reso più intrigante, dallo spostamento della Mathison a COS (chief of station, capo della stazione) di Islamabad, Pakistan. Probabilmente la peggior assegnazione che un operativo Cia potrebbe aspettarsi: il Pakistan è un paese difficile, pieno di talebani molto attivi (i fatti della scuola di Peshawar ce lo hanno tristemente ricordato pochi giorni fa), pezzo di una regione instabile insieme al contiguo Afghanistan, luogo dove le istanze radicali hanno a lungo vissuto fasi di rapporti ambigui con il governo e dove il servizio segreto interno, l’Isi, si muove spesso su un doppia agenda, facendo da sponda agli islamisti. (È noto il ruolo d’appoggio che i servizi pakistani hanno fornito all’ascesa dei talebani al potere, permettendo l’istituzione di un governo radicale a Kabul, che ha ben presto dato rifugio, e fatto da base, per l’intera leadership di al-Qaeda).

Nella quarta stagione di “Homeland” – e in particolare nella puntata “13 ore ad Islamabad” – tutto questo è ricostruito alla perfezione: ma senza andare troppo in là, evitando gli spoiler, quanto c’è di vero in quello che Gansa racconta?

Lo hanno spiegato sul Daily Beast Chuck Cogan (ex capo della Middle-Eastern and South Asian Operational Division della Cia) e John MacGaffin (ex capo della Central Eurasian Operational Division, oltre che vice direttore associato per le operazioni della CIA e, infine, consulente di “Homeland” per tutta questa stagione).

Secondo Cogan e MacGaffin, lo spettacolo prodotto da è molto realistico e ritrae lo scenario pakistano molto bene – tra l’altro, il nome del gruppo terroristico che assalta l’ambasciata americana nella serie, è quanto mai realistico: si chiamano Haqqani. La serie è stata in grado di «presentare con precisione la missione, l’intensità, il ritmo, le contraddizioni e la complessità di quella stazione della CIA», scrivono i due ex quadri dei servizi americani.

Inoltre, nella rappresentazione televisiva, emergono pure gli aspetti scomodi – e senza compromessi – dell’attività americana (e occidentale) in certe aree: dilemmi morali e pratici dell’affrontare nemici come gli “Haqqani” in “Homeland” o come lo Stato Islamico in Iraq e Siria, che noi vediamo come “il male”, ma che a loro volta vedono gli Usa (e l’Occidente), con lo stesso fervore, come minaccia esistenziale.

Certo, si sottolinea nel pezzo sul Daily Beast che ci sono delle modalità operative in alcuni casi differenti, non rappresentabili nella fiction perché coperte dal segreto di stato; così come, nella realtà, sarebbe stata improbabile l’assegnazione di Carrie a COS di Islamabad, a causa del suo stato psichico maniaco-depressivo.

Ma per Cogan e MacGaffin, qualsiasi agente a capo della stazione pakistana si è trovato davanti gli stessi problemi della Mathison. I rapporti con il governo locale e con il doppiogiochista Isi; i tentativi di trovare un anello influenzabile, “reclutabile” (linfa vitale della Cia oggi), in disaccordo con la leadership governativa e dei servizi, per avviare una collaborazione; la presenza di agenti in pensione che cercano di rimettersi in gioco creando più problemi che aiuti (nel caso, Saul Berenson, ex direttore, amico di Carrie, rapito dagli Haqqani); la lotta morale degli agenti, profondamente convinti dei risvolti pericolosi delle proprie operazioni, e le relative frustrazioni; i problemi di intelligence, di ricerca delle fonti e dell’avvicinamento dei contatti, che in alcuni casi portano a madornali errori (l’attacco alla festa di nozze che uccide decine di civili, non è molto diverso da quel drone che colpì, davvero, in Yemen, proprio un convoglio nuziale); l’angoscia di Saul, rapito, che non vuole diventare pedina di scambio e di contrattazione con i terroristi, secondo molti analisti è la sensazione che, a un certo punto, provano molti ostaggi, rassegnati alla propria sorte.

Il Pakistan è un paese spaccato in due: da un lato le masse povere, che vivono tra carenze basilari alimentari e igienico-sanitarie, vittime delle radicalizzazioni nazionaliste dell’ex premier Zulifiqar Al Bhutto, che adesso hanno sostituito quelle istanze con quelle islamico-radicali; dall’altra le élite dei punjabi, civili e militari, che gestiscono il paese. Secondo Cogan e MacGaffin, con il generale mandato dal governo di Islamabad a negoziare con i Talebani il rilascio di Saul al fianco degli americani, Homeland è riuscito a incarnare il perfetto esempio di questo genere di burocrati elitari: «alto, imponente, dalla voce profonda e vestito per l’occasione “a la Savile Row”». Con loro, l’America e l’Occidente non hanno mai trovato spazio per dialoghi troppo amichevoli.

I collegamenti tra Cia e Isi, risalgono agli anni Cinquanta: a quei tempi, dalla base aerea di Peshawar, gestita in un rapporto difficile dalle due agenzie di servizi, si alzavano in volo gli U-2 che perlustravano la Russia. Quando il Partito Comunista afghano, aprì le porte all’invasione russa del paese, Cia e Isi lavorarono insieme fornendo supporto ai ribelli in Afghanistan – il Pakistan, in fondo, considera l’Afghanistan, con profondità strategica, il cortile dietro casa.

I discendenti diretti di quei mujahiddin afghani che hanno respinto i sovietici – con l’aiuto dei programmi segreti delle agenzie americane e pakistane, e i soldi dei sauditi – sono coloro che nella fiction hanno rapito Saul e nella realtà combattono l’attuale governo “amico degli americani” di qua e di là del confine Af-Pk. In tutto questo, mano a mano, l’Isi ha deciso chi scegliere come partner, costruendo elementi tra i radicali islamici e spesso girando le spalle a Washington – il ritardo dei soccorsi al convoglio di Carrie attaccato dai combattenti talebani, voluto dai servizi segreti pakistani, è fiction ma non troppo.

il ritmo, l’intensità, la complessità degli sforzi, rappresentati in “Homeland”, ricostruiscono molto bene l’attività della Cia in paesi come Pakistan, Afghanistan o Yemen. Paesi controversi, dove il governo locale è infiltrato, tra corruzione e ideologia, dalle istanze radicali, e dove la presenza degli americani (dell’Occidente) è vista – anche per memoria storica – come un’illegittima occupazione.

@danemblog

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