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Cosa (non) farà il successore di Napolitano al Quirinale

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il commento di Sergio Soave apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi

L’elezione del nuovo capo dello stato sembra sostanzialmente incardinata sui binari del patto del Nazareno, che, piaccia o non piaccia, risulta l’unico asse politico su cui si può costruire la necessaria riforma istituzionale, di cui appunto il Quirinale rappresenta la principale tutela. I segnali di disponibilità reciproca a una ricerca comune senza pregiudiziali troppo pesanti che vengono da Matteo Renzi e da Silvio Berlusconi avvalorano questa ipotesi. Naturalmente chi si sente escluso o debilitato da quell’intesa, soprattutto all’interno dei due partiti contraenti, cercherà invece di dare del filo da torcere.

Molti ricordano come toccò ad Amintore Fanfani, premier e segretario della Dc come Renzi lo è del Pd, subire il fallimento della sua candidatura a vantaggio di una coalizione straordinaria tra dissidenti democristiani comunisti socialisti e neofascisti che portò al Quirinale Giovanni Gronchi. Ci sono analogie con la battaglia dei dorotei contro la leadership unica di partito e governo, anche se fa un po’ impressione vedere Massimo D’Alema nelle vesti del leader neodoroteo. Il problema vero, che né i nazareni né gli antinazareni possono risolvere agevolmente, è quello di evitare che la personalità prescelta poi si riveli un boomerang per le loro aspettative.

È già capitato varie volte, a cominciare da Francesco Cossiga, eletto come esponente apicale del consociativismo alla prima votazione e che finì come picconatore del consociativismo e fu persino accusato, seppure del tutto indebitamente, da Achille Occhetto di tradimento del giuramento di fedeltà alla Costituzione. A guardar bene, anzi, si può vedere che il comportamento dei presidenti, compreso Napolitano che fu eletto da una maggioranza di sinistra millimetrica ma poi richiesto della proroga anche e soprattutto da quelli che non lo avevano votato, non corrisponde quasi mai alle finalità implicite nella scelta fatta dai partiti all’atto dell’elezione.

Il «sinistro» Gronchi sostenne il governo Tambroni provocando una mezza guerra civile, Segni non fu da meno quando diffidò talmente della scelta dei morodorotei (la corrente di cui era stato leader) di aderire a un centrosinistra riformatore da suscitare l’impressione del «rumore di sciabole» evocato da Pietro Nenni, per non parlare di Oscar Luigi Scalfaro, proposto da Marco Pannella come un «Pertini laico» che finì invece col proteggere le ondate giustizialiste più illiberali. Vada come vada l’elezione, poi sarà il carattere del nuovo presidente eletto a segnare nei fatti l’orientamento del settennato, senza alcuna garanzia di coerenza con i desideri dei suoi elettori.

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