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Jobs Act, ecco cosa è davvero successo all’articolo 18

Per capire come sarebbe finita la vicenda del Jobs act Poletti 2.0  non erano necessari  abili ed informati retroscena, raffinate analisi in punta di penna; e neppure informazioni di prima mano di quanti si accreditavano come protagonisti  della stesura dei testi. Bastava seguire due piste tra loro coerenti e collegate: la  convenienza politica e l’interpretazione delle norme per come  venivano man mano prendendo forma.

Quanto al primo aspetto era del tutto evidente che, dopo l’accordo intervenuto alla Camera all’interno del Pd, Matteo Renzi non avrebbe mai  commesso l’errore di ricompattare la sinistra del suo partito, tanto più che, grazie all’emendamento a prima firma Gnecchi (rettificato e condiviso dal Governo),  il premier si era assicurato l’appoggio di personalità  – come il presidente della XI Commissione della Camera Cesare Damiano  e il capogruppo a Montecitorio Roberto Speranza – che ricoprono ruoli  istituzionali cruciali per portare a buon fine l’iter legislativo del provvedimento. Inoltre, il poter contare su di un pezzo dialogante della sinistra aveva permesso a Renzi di depotenziare l’opposizione e lo sciopero della Cgil, al punto che Damiano e gli altri ‘’mediatori’’ si erano tirati addosso, il 12 dicembre,  i più appuntiti strali della polemica negli sgangherati discorsi dei leader sindacali.

E gli alleati ? Il premier-ragazzino  è abbastanza cinico per sapere che, negli eserciti coloniali, le rivolte degli ascari si domano con una pinta di cattivo rhum e, se non basta, con la frusta e la forca. Poteva esserci, per la credibilità che ancora gode in certi ambienti – e il premier è attento a questi particolari – un ‘’problema Pietro Ichino’’, presto risolto, però, con la promessa di un testo unico del lavoro semplificato e ‘’traducibile in inglese’’ e, ancor di più, con una norma dedicata, nello schema, al contratto di ricollocazione, corredata, altresì,  di copertura finanziaria. Passando ad esaminare l’interpretazione delle norme – il cui percorso legislativo è divenuto, strada facendo, meno generico –  non sarebbe onesto sostenere che lo schema del decreto delegato sull’istituzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti non è coerente con i principi e i criteri della delega. Di certo non si sarebbe potuto parlare di eccesso di delega neanche nel caso di opting out ovvero se si fosse riconosciuta – al datore soccombente in un vertenza riguardante il licenziamento disciplinare e condannato alla reintegra – la facoltà  di optare per il pagamento di una penale.

Ma nessuno potrebbe, d’altronde, sostenere che si trattasse di una scelta chiaramente indicata nei criteri della delega. Al contrario, sembra passibile di eccesso di delega la norma – ancor più stupida   che demagogica, anche perché nessuno ha mai messo in dubbio la ratio della esclusione  – che estende la nuova disciplina del licenziamento alle c.d. organizzazioni  di tendenza (ovvero ai partiti e sindacati, ecc.). Il fatto più grave è che ad esse siano estese anche le norme riguardanti il licenziamento discriminatorio, perché era proprio questa la forma principale di recesso considerata non sanzionabile dalla dottrina e dalla giurisprudenza, prima ancora che dalla legge. Vuol dire che le parrocchie dovranno tenersi un sagrestano convertito all’Islam ? O che il Pd non potrà licenziare un dipendente iscritto e militante di Forza Nuova ?

Non dovrebbe, invece, creare problemi  l’applicazione delle nuove tutele previste, per i c.d. licenziamenti economici individuali,  anche a quelli collettivi. In verità, questioni, anche gravi,  di irrigidimento  del mercato del lavoro, sarebbero insorte se l’estensione fosse stata automatica, nel senso di aprire alla valutazione dei giudici un campo – quello degli esuberi – fino ad ora riservato soltanto ad un procedura di carattere sindacale. Sembra, però, che la possibilità di agire in giudizio sia prevista, con taluni limiti,  soltanto come sanzione per la mancanza della forma scritta o dell’avvio del procedimento previsto. A leggere lo schema, anche le piccole imprese dovrebbero essere tutelate, in quanto a loro non sarebbe applicabile la norma riguardante la reintegra nella fattispecie di licenziamento disciplinare. In conclusione, si sarebbe potuto fare di più e meglio ? Certamente.

In questa vicenda si sono sprecati quelli che Dante definisce  ‘’consigli fraudolenti’’: fare molte promesse e mantenerne poche. Renzi, nonostante la giovane età, è un maestro in tale pratica. Qualcuno, tra gli alleati, manteneva un canale riservato con il premier e aveva da lui ottenuto segnali più incoraggianti ? Pensava davvero che Renzi, nell’impostare i decreti attuativi, sarebbe venuto meno ai patti con Damiano esponendosi così ad un parere sferzante della Commissione Lavoro della Camera ? Come non capire che proprio  il presidente del consiglio – ormai uomo-tuttofare dell’esecutivo – era il principale interessato  a mantenere la parola con la ‘’sinistra del dialogo’’ per non regalarne la posizione politica alla Cgil ?

Certo, ha ragione chi critica il Governo per aver tenuto conto, nel formulare il testo, soltanto di rabbonire una parte dell’opposizione interna al Pd. È questa la verità. Ma esistono altre forze politiche in grado di impensierire davvero Renzi ? E’ credibile che il Ncd (o Area popolare come si chiama adesso) apra la crisi di governo su di un punto del Jobs act Poletti 2.0  che, alla fine, non interessa neppure alla Confindustria ? Anzi, alcuni suoi esponenti – caduti nel medesimo errore di eccesso di fiducia in cui incorsero ai tempi della legge Fornero – avrebbero dovuto risparmiare quelle minacce formulate esibendo una pistola caricata ad acqua.

Singolare, poi, l’atteggiamento di Forza Italia, la quale, ad eccezione di Renato Brunetta, si accontenta di parlare d’altro ,  sostenendo, come il Sel, che la riforma dell’articolo 18 non creerà  occupazione.

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