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Giornata della Memoria. Per non abbassare la guardia, mai

Oggi si celebra la Giornata della Memoria. Memoria degli orrori della Shoah, innanzitutto, ma anche occasione per riflettere ancora su quel fenomeno politico che nel secolo scorso ha insanguinato il mondo intero: il totalitarismo. Se il “secolo delle idee assassine”, come è stato giustamente definito, una lezione ci ha lasciato, è questa: alla negazione di Dio (ciò che ha accomunato nazismo e comunismo pur nella diversità del metodo e della teoria politica) consegue necessariamente la morte dell’uomo, della sua dignità, del suo essere persona. “Se Dio non c’è, tutto è possibile”, diceva Dostoevskij. Laddove si è tentato di estirpare Dio dalla faccia della terra, per costruire il mondo nuovo, un mondo solo “umano”, tutto si è rivolto contro l’uomo. Per questo è importante non abbassare mai la guardia. E non solo pensando ai tanti regimi totalitari tuttora vivi e vegeti in tante parti del mondo. Ma anche al rischio di una deriva totalitaria delle nostre moderne democrazie, come ebbero a segnalare in più occasioni S. Giovanni Paolo II, prima, e Benedetto XVI, poi. Basti ricordare quanto ebbe dire il santo papa polacco nel suo discorso al Parlamento italiano del 14 novembre 2002: “Nella Lettera enciclica Veritatis splendor mettevo in guardia dal «rischio dell’alleanza fra democrazia e relativismo etico, che toglie alla convivenza civile ogni sicuro punto di riferimento morale e la priva, più radicalmente, del riconoscimento della verità» (n. 101). Infatti, se non esiste nessuna verità ultima che guidi e orienti l’azione politica, annotavo in un’altra Lettera enciclica, la Centesimus annus, «le idee e le convinzioni possono essere facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia» (n. 46)”. Tornando alla Shoà, penso che un evento come la Giornata della Memoria debba servire anche per riflettere su un aspetto spesso trascurato: se si confronta la letteratura ebraica dopo la Shoà, con quella prodotta in seno all’ebraismo durante e dopo l’esilio babilonese (che, fatte salve le debite differenze, è stato un evento altrettanto drammatico), il dato che emerge è che mentre la seconda rappresenta una vera e propria teologia della storia, nella prima, al contrario, a stento si trova traccia di quella fede che pervade i testi dell’esilio. Al punto che con Auschwitz sembra non esserci più spazio per la fede, come testimoniano queste intense e dolorosissime parole tratte da La Notte, capolavoro autobiografico dello scrittore e premio Nobel per la pace Elie Wiesel: “Mai dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto. Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre la mia Fede. Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto. Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai”. Parole da cui emerge in tutta la sua forza il dramma di un popolo intero, che nella Shoà ha toccato il culmine delle tante persecuzioni subite nel corso della sua storia millenaria. Anche per questo storia “misteriosa”, nel senso teologico del termine, cioè di un disegno che Dio solo conosce. E forse non è un caso se duemila anni fa un altro ebreo, quel Gesù di Nazareth pose la più sconcertante e inattesa delle domande: “Quando il Figlio dell’Uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?”

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