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Vi spiego perché le consultazioni di Renzi per il Quirinale sono proprio una renzata

Bisogna essere ingenui, più che ottimisti, a pensare che siano state davvero utili le “consultazioni” che il presidente del Consiglio e segretario del Pd Matteo Renzi ha voluto condurre nella sede del Nazareno con le delegazioni di una ventina di partiti per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Consultazioni ancora più pleonastiche di quelle che si svolgono al Quirinale ad ogni apertura di crisi per la formazione del nuovo governo, essendo a tutti arcinoto che le decisioni, in realtà, non maturano e non vengono prese in quegli incontri. Essi servono solo o a confermare al capo dello Stato ciò che gli è già noto, magari attraverso la semplice lettura dei giornali, o a prospettargli problemi da approfondire poi in altra, più ristretta e decisiva sede o occasione, a volte semplicemente telefonica.

Le consultazioni di Renzi sono state peraltro condotte alla rovescia. Non le ha condotte il capo dello Stato per formare il governo ma il capo del governo, e anche segretario del partito di maggioranza, per eleggere in Parlamento il presidente della Repubblica. Che è destinato tuttavia ad essere ben più stabile di lui perché forte di un mandato di sette anni, superiore alla durata di una legislatura, e non sfiduciabile da chi lo ha eletto.

A far cadere le ultime illusioni, o ipocrisie, sulla valenza delle consultazioni condotte per il Quirinale da Renzi ha impietosamente provveduto, del resto, il suo più decisivo interlocutore, Silvio Berlusconi, sottraendosi al rito delle delegazioni dei capigruppo parlamentari e reclamando per sé un incontro personale, a parte. Più chiaro di così, francamente, l’ex cavaliere non poteva essere per sottolineare il proprio ruolo, e Renzi per riconoscerglielo accordandogli un trattamento riservato con un incontro particolarmente lungo a Palazzo Chigi, il più lungo di quelli seguiti alla sfilata delle delegazioni dei partiti al Nazareno. Un incontro che proprio per la sua lunghezza, e per i contatti successivi degli stessi Renzi e Berlusconi, ha lasciato pensare più alla perdurante ricerca di una sia pur difficile intesa che alla rottura desiderata dagli avversari interni ed esterni del presidente del Consiglio.

Semmai, le consultazioni sono risultate politicamente significative solo per la deroga imposta da Berlusconi. E un po’ anche per la frattura che Renzi, invitandone i fuorusciti fra proteste e aggressioni, ha voluto e potuto certificare e aggravare nel movimento di Beppe Grillo. Una frattura che potrà essergli utile proprio nell’elezione del successore di Giorgio Napolitano.

Se fosse alle porte una riforma costituzionale incisiva nella parte riguardante il presidente della Repubblica, ci si potrebbe consolare pensando di assistere per l’ultima volta ad una elezione del capo dello Stato gestita di fatto dietro le quinte, quasi privatamente, senza l’obbligo, per esempio, di un preventivo deposito delle candidature e di un dibattito parlamentare prima delle votazioni.

No. Non sarà l’ultima volta, perché nella riforma costituzionale in corso d’opera non solo è stata respinta la proposta dell’elezione popolare del capo dello Stato, ma è stata confermata la natura di seggio elettorale del Parlamento riunito per scegliere il presidente della Repubblica, senza il deposito delle candidature e un dibattito trasparente. Cambieranno, salvo sorprese, solo le maggioranze necessarie per l’elezione: i due terzi dell’assemblea nelle prime tre votazioni, come adesso, i tre quinti dalla quarta alla sesta votazione e i tre quinti dei votanti dalla settima in poi. Che sono tutte maggioranze qualificate, come qualificata è anche la maggioranza assoluta dell’assemblea, ora in vigore dal quarto scrutinio, che s’intende sopprimere e che gli ignoranti definiscono “semplice”. In realtà, di semplice c’è solo la maggioranza dei votanti, oggi sufficiente per l’approvazione delle leggi ordinarie, ma anche per la fiducia al governo.

La riforma in cantiere sarà solo un cerotto su una ferita ormai purulenta, com’è ormai diventata con le procedure attuali l’elezione del capo dello Stato. Una ferita avvertita già nel 1962 dall’allora giovane segretario della Dc Aldo Moro, 46 anni neppure compiuti, che tentò di porvi rimedio facendo almeno pronunciare con una votazione segreta i parlamentari del proprio partito sul candidato da proporre poi agli altri gruppi e da far votare infine nell’aula di Montecitorio. Ma fu una procedura poi disattesa da alcuni dei successori, Renzi compreso, anche se il suo partito è un parente ormai lontano della Dc, essendo i democristiani passati per una lunga e contorta serie di separazioni prima che una piccola parte, più di dirigenti che di militanti e di elettori, confluisse nel Pd con gli ex comunisti.

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